giovedì 1 dicembre 2011

MONOTEISMO VEDICO


QUESTO ARTICOLO FU PUBBLICATO PER LA PRIMA VOLTA SUL DR. S. KRISHNASWAMI AIYANGAR
COMMEMORATION VOLUME (MADRAS) 1936 E FU RIPROPOSTO DAL JOURNAL OF INDIAN HISTORY, XV, 1936.
QUI SI OFFRE UNA SECONDA VERSIONE, CON SUCCESSIVE REVISIONI ED UN'ADDENDA DELL'AUTORE.

ANANDA KENTISH COOMARASWAMY

Un solo Fuoco viene acceso in molti luoghi,
un solo Sole è presente per uno ed in tutto,
una sola Aurora illumina questo tutto:
quello che è Uno solo diventa questo tutto.
Rig-Veda VIII.58.2

Nella maggiore parte dei casi, l'erudizione moderna postula che nella metafisica indù il concetto di Principio Unico sia solo uno sviluppo posteriore in cui i diversi dei diventano, per così dire, poteri o aspetti operativi o attributi personificati. Però, già Yāska (E1) insegna che è proprio per la gran divisibilità del principio il motivo per cui gli sono applicati molti nomi, uno dopo l’altro: «Gli altri dei diventano (bhavanti) parti secondarie dello Spirito Unico … il loro divenire è una nascita l’uno da un altro, sono di una natura comunicata; nascono nella funzione(1) (karma); lo Spirito è la loro origine … lo Spirito (Ātman) è il tutto di quello che un Dio è» (NIRUKTA VII.4).
Analogamente nella BŖĀD DEVATĀ I.70-74 vien detto: «è per l’immensit{ dello Spirito che lo chiamiamo con tanta diversità di nomi,2 a seconda dell’assegnazione delle sue sfere.» I nomi sono innumerevoli solo in quanto sono "differenziazioni", "presenze"3. I grandi saggi (E2) (kavayah), nei loro inni (E3) (mantrēśu) dicono che le divinità hanno una fonte comune; si chiamano con differenti nomi secondo gli ambiti in cui sono stabiliti4. Alcuni dicono che partecipano di quello, o che tale è la loro derivazione; ma per quel che riguarda
la Trinità dei sovrani del mondo, si capisce bene che la totalità della loro partecipazione (bhaktih) è nello Spirito (Ātman)»5

I passaggi precedenti illustrano il metodo normale della teologia in ogni esame de divinis nominibus, quan-do il riconoscimento delle diverse operazioni di un principio unico dà origine all'apparenza superficiale di un politeismo. Anche nel cristianesimo, per esempio, si dice: "noi non diciamo l'unico Dio, perché la divini-tà è comune a vari" (Summa Theologica I.31.2C); più ancora, "Creare esseri appartiene a Dio secondo il Suo proprio essere, cioè, la Sua essenza, che è comune alle tre Persone. Di qui che creare non è peculiare ad un'unica Persona, bensì comune a tutta la Trinità", Summa Theologica I.45.6C e bisogna capire bene che "Benché i nomi di Dio abbiano un unico riferimento comune, tuttavia, poiché il riferimento si fa sotto molti e differenti aspetti, questi nomi non sono sinonimici … I molteplici aspetti di questi nomi non sono vuoti e vani, perché corrisponde a tutti loro un'unica realtà rappresentata da ognuno di loro in una maniera diversa ed imperfetta", Summa Theologica I.13.a ad 216.
Sāyaŋa nel Śatapatha Brāhmaŋa (I.6.1.20) dice: «Prajāpati è inesplicito poiché Egli è essenzialmente tutti gli dei per questo che di Lui non si può dire che "È questo o quello" ma solo che "Egli è."»
Così anche Ermete Trismegisto: «Possiamo dire che è corretto attribuirgli il nome di "Dio” o quello di Arte-fice o quello di Padre,? No, i tre nomi sono Suoi ed Egli è giustamente chiamato "Dio" in ragione del Suo potere, "Artefice" in ragione dell'opera che fa e "Padre" in ragione della Sua bontà" [Lib. XIV.4].
Plotino, allo stesso modo, scrive nelle enneadi: «La vita delle stelle dotate di anima è identica, poiché sono unite all'Anima del Tutto, in modo che il loro movimento spaziale stesso ha il suo centro nella loro identità e si risolve in un movimento che non è spaziale ma vitale», Enn. IV.4.8.

È ben conosciuto che queste concezioni dell'identità del Primo Principio con tutti i suoi poteri sono continui nei Brāhmaŋa e nell'Atharva Veda. Ad esempio si può trovare, nel Ŝatapatha Brāhmaηa X.5.2.16: «in quanto a questo dicono, "Allora la Morte è uno o molti?." Uno deve rispondere, "Uno e molti." Dunque, mentre Egli è Quello, la Persona nel Sole, Egli è anche uno; e nello stesso tempo Egli è molteplicemente distribuito nei Suoi figli ed Egli è molti», passo che deve essere letto insieme al verso 20: «Come uno Lo cerca, così egli diventa»7 ed Atharva Veda Saмhitā VIII.9.26, «Un unico Toro, un unico Profeta, un'unica Casa, un'unica Ordinanza, un unico Yakşa nel Suo terreno, un'unica Stazione che non si svuota mai»; ed nell’Atharva Veda Saмhitā I.12.1, Agni è descritto come "Un'energia il cui progressione è tripla, (ekam ojas tredhā vicakrame)».

La critica passa molto spesso sopra al fatto che questo punto di vista sia sostenuto esplicitamente e ripetu-tamente nel Rig-Veda da non lasciare posto ad alcun equivoco. Un esame completo della formulazione ve-dica del problema dell'uno e dei molti richiederebbe un esteso studio sull'esemplarismo (E4) vedico, ma vo-gliamo richiamare l'attenzione sull'espressione viŝvam ākam, "molteplicità integrale", del Rig-Veda Saмhitā III.54.8. Tutto quello che ci si propone ora è di riunire alcuni dei più notevoli tra i testi vedici in cui si afferma categoricamente l'identità dell'uno e molti ed aggiungere che anche se nessuna di queste af-fermazioni esplicite fosse disponibile, la legge che esprimono potrebbe comunque essere indipendente-mente dedotta da un'analisi delle funzioni attribuite ai differenti poteri, perché benché queste funzioni sia-no caratteristiche di divinità particolari, non sono mai interamente peculiari di nessuna di loro8.

Passaggi molto familiari, spesso rifiutati perché "tardivi", includono (Rig-Veda Saмhitā I.164.46): "I sacer-doti chiamano in molti modi differenti (bahudhī vadanti) Quello che è solo Uno; lo chiamano Agni, Yama, Mītrāhvarunā, lo chiamano Indra, Mitra, Varuŋa, Agni, o dicono che è «l’aquila celeste Garutmān" o (Rig Veda Saмhitā X.114.5): «I cantori in estasi E5 (viprāū kavaya) concepiscono in molti modi l'aquila che è U-no»; e in X.90.11, dove, dopo che i Primi Sacrificatori hanno diviso il Primo Essere, si fa questa domanda alla maniera brahmōdaya, «Quanti multipli gli pensarono?»9. È questa la fine (artham) che Agni teme men-tre si trattiene nell’oscurit{: che lo si mandi ad abitare in molte sedi, per fortuna nella realtà, nonostante Egli proceda, rimane interiore.
Nello stesso modo si esprime Mastro Eckhart, "il Figlio rimane dentro come essenza e procede come per-sona … la natura divina si manifesta in una relazione di “alterità”, altro ma non un altro, perché questa di-stinzione è razionale, non reale.

«Ai Cantori Egli si manifestò come il Sole degli uomini10. Come in Plotino, V.8.9, "Il sole è l'unico Dio … quale posto può essere nominato che Egli non raggiunga?." Inoltre, sono altrettanto esplicite le affermazioni che si raccolgono in altri libri. In merito, si dice spesso che Egli ha due forme differenti, secondo il Suo essere di Giorno o di notte, e che questo è "come Egli vuole", (Rig-Veda Saмhitā III.48.4, VII.101.3; cf. X.168.4 e Atharva-Veda Saмhitā VI.72.1). A volte questo concetto è e-spresso in termini come «Ora Egli è sterile, ora genera» Rig-Veda Saмhitā VII.103.3, questa ultima espressio-ne, è la stessa del termine sùh nel Rig-Veda Saмhitā (I.146.5) ed equivale a dire savitŗ bhavati, "Egli diviene Savitŗ¨." Cf. Rig-Veda Saмhitā III.55.19 e X.10.5, dove Tvaşţŗ E6 e Savitŗ E7 si identificano per apposizione.

Nel Rig-Veda Saмhitā III.20.3 e VIII.93.17, Agni ed Indra sono chiamati polinominalmente bhurīŋi-nāma = dai molti nomi e puru-nāma = dai numerosi nomi ed in II.1, Agni è invocato con i nomi di quasi tutti i poteri, ci sono inoltre innumerevoli passaggi in cui Indra è una designazione del Sole.
Nel Rig-Veda Saмhitā VIII.11.8 è scritto che Agni «deve essere visto in molti posti, o aspetti differenti» [cf. I.79.5 e VI.10.2, Agni purvanīkah]. «benché la Sua somiglianza sia la stessa in molti posti, tuttavia, il Suo di-venire è multiplo ed a Lui gli sono dati molti nomi, perché "Come Egli si mostra, così Egli è chiamato"» (Rig-Veda Saмhitā V.44.6)11, un passo del Śatapatha Brāhmaŋa X.5.2.20, è poco più che una parafrasi.

Rig-Veda Saмhitā I.146.5, coincide con innumerabili passi sparsi per tutto il Rig-Veda, dove Agni è concor-de con Mitra,Varuŋa e Mātariŝvān; in IV.42.3, Varuŋa si autoidentifica con Indra e Tvaşţŗ; analogamente in RV.3.1-2, Agni è identificato con Mitra, Varuŋa e con Indra. Questo non è una questione di mera sugge-stione; i punti di vista particolari propri ai differenti nomi sono accuratamente espressi. [Allo stesso modo, se Agni, come Sole, è il "viso" o la "freccia", (anīkā) degli dei, Rig-Veda Saмhitā I.115.1, VII.88.2, etc., e con-temporaneamente è logicamente detto "dai molti visi" (pūrvanīkah), "questo non fa del Dio eterno qualco-sa di reale, ma solo accorda quell’idea al nostro modo di pensare", Summa Theologica III.35.5C, perché "Gli uomini, nel loro culto sacrificale, hanno imposto su Te, Agni, i molti visi". I "visi" o "frecce" dell'Agni solare sono in realtà i suoi "raggi", quegli stessi raggi coi quali il Sole Spirituale sostiene l'essere di tutte le cose, ma con cui è occultata la Porta solare, in modo che quello che vuole entrare supplica, quindi, che i raggi siano dispersi.

Espresso altrimenti, Agni è l'Albero della Vita (vanaspati) «Gli "altri fuochi" sono i tuoi rami», Rig-Veda Saмhitā I.59.1,: «Tutti gli altri Agni germogliano da te, oh Agni»; «Tutte queste divinità sono forme di A-gni», Aitareya Brāhmaŋa III.412. In molti casi il verbo bhāE8, "divenire", come appare nei testi Brāhmaŋa e Nirukta già citati, è impiegato nel Rig-Veda per indicare nello stesso verso il passaggio di un nome o fun-zione ad un altra. Per esempio, Rig-Veda Saмhitā III.5.4, "Agni diviene (bhavati) Mitra quando è acceso, Mi-tra il sacerdote; e Varuŋa diviene Jātavādas"; cf. IV. 42.3, "io, Varuŋa , sono Indra", e V.3.1-2, "Tu, Agni, sei Varuŋa e nascendo divieni (bhavasi) Mitra, quando sei acceso in te, oh Figlio della Forza, abitano gli dei U-niversali; sei Indra per l'adoratore mortale. Per le donzelle sei Aryaman, e come Svadhāvan porti un nome segreto» probabilmente come Trita del passo I.163.3: «Tu sei Trita per l'operazione interna, così…»
Nuovamente, Rig-Veda Saмhitā III.29.11, "Come Germe di Titano eleva a Tanūnapāt13, quando nasce è Narasāŋsa, quando si forma nella Madre diviene Mātariśvān, il Vento degli Spiriti nel suo corso".
Questoo Spirito in realt{ è l’Essenza stessa di Varuŋa ed il soffio di Vāc, un vento la cui forma non si vede ma che è l'Essenza (ātmā ) di tutti gli dei e che si muove come vuole (X.168.4).

Ai passaggi precedenti, nei quali si considerano gli effetti diversificati di quello che è realmente un'opera-zione unica, si può unire quanto esposto nel Rig-Veda Saмhitā VI.47.18, «Egli è la controforma (matrice) di ogni forma, è quella forma di Lui quello che dobbiamo contemplare; Indra, per virtù dei Suoi poteri magici, procede come multiforme», un passaggio che è in stretta corrispondenza con «la forma unica che è la for-ma di molte cose differenti» di Mastro Eckhart, parole che riassumono la dottrina dell'esemplarismo scola-stico. E mentre in X.5.1 solo Agni è “ŗtupati” (Signore delle Epoche) in Rig-Veda Saмhitā VI.9.5, "I Moltepli-ci Dei, con una mente comune ed una volontà comune, si muovono senza fallo nella stagione unica", il ver-so citato sopra corrisponde strettamente a quanto detto nella Summa Theologica III.32, 1 ad 3, dove quello che fa una delle Persone della Trinità si dice è fatto da tutte, «poiché ci sono un'unica natura ed una unica volontà». Nel Śatapatha Brāhmaŋa VIII.7.3.10: «Il Sole incorda questi mondi nel suo Spirito come su di un filo», Bhagavad Gītā VII.7, «Tutto questo è incordato in "Me», e X.20, «Io sono lo Spirito che ha sede nel cuore di tutti gli esseri», ripete meramente il pensiero di Rig-Veda Saмhitā I.115.1, «Il Sole è lo Spirito (āt-man) di tutto quello che è in movimento o in riposo». Nel Rig-Veda Saмhitā X.121.2, Hiranyagarbha (Agni) Prajapati, è chiamato il "datore" dello Spirito (ātmadā), ed è in questo senso che Agni, in I.149.3, è "di cen-tuplice Essenza" (śatātmā).

Nel Rig-Veda Saмhitā X.51.7 si invoca ad Agni perché dia la sua "parte" (bhāgam) agli dei; quella è la sua funzione peculiare come sacerdote (purohita) degli dei. Quindi, è sufficientemente chiaro che il Nirukta ed la Bŗhad Dēvatā siano pienamente giustificati nel dire che gli dei partecipano (bhakta) dell'Essenza o espi-razione divina; questi testi mantengono perfino la fraseologia dei mantra vedici. Il riferimento alla "parte-cipazione" ci conduce alla considerazione del Bhaga vedico, posteriormente Bhagavānā. Bhaga non è un nome personale è piuttosto una designazione generica del potere attivo in uno qualsiasi dei suoi aspetti, mentre il "Libero Donatore" o il "Partecipante" che fa che la sua bhakti partecipi alle sue ricchezze. Queste ricchezze possono essere solo gli aspetti della Sua Essenza perché, certamente, noi non possiamo conside-rare la divinit{ come “proprietaria” di un qualcosa di più di quello che Esso stesso è. «Comunicandosi a sé stesso, Egli riempie completamente questi mondi» Questo ultimo è un testo upanishadico (Maitri Upani-şad VI.26), ma il concetto è vedico.

In realtà, Bhaga riceve per apposizione il nome di "Dispensatore" (vibhaktŗ) Rig-Veda Saмhitā V.46.6.
Bhaga è "partecipazione" o "dispensazione", come nel Rig-Veda Saмhitā II.17.7, diretto ad Indra, "Io ti im-ploro, oh Bhaga … valutami, tendimi, dammi quella parte (bhāgam) con cui il corpo è elevato)", dove bhā-gam = amŗtasya bhāgam, in I.164.21, cf. anche VIII.99.3, "Dipendendo da Lui, come dal Sole, i Molti (viŝve devam) hanno partecipato di quello che è di Indra"; in una lode diretto ad Agni si dice che i Molti "parteci-pano della tua divinità", VII.81.2 è la preghiera all'alba: "Siamo associati nella partecipazione".
Questi passaggi sono indubbiamente sufficienti per chiarire che Bhaga e vibhaktŗ sono il dispensatore o il datore che si dà sé stesso o la sua sostanza; sambhāja il partecipante che partecipa al dono; bhāga, bhakşa, e bhakta la parte che si dà o che si riceve. Benché queste espressioni siano vediche, bhakti, l'atto della di-stribuzione, o di fare condividere quello che si dà, e bhakta come sinonimo di vibhaktŗ, il donatore, appaio-no solo più tardi.

Il problema della "origine del movimento bhakti", che è stata tanto discussa, non sarebbe mai esistito se si fossero mantenute queste interpretazioni nelle traduzioni dei testi posteriori, specialmente quella della Bhagavad Gītā. Bhakta, nel Rig-Veda, può essere la parte del "tesoro" ottenuta dal sacrificatore dalla divi-nità, Rig-Veda Saмhitā IV.1.10, o, inversamente, la parte che il sacrificatore d{ o assegna alla divinità, Rig-Veda Saмhitā I.91.1, Specialmente Agni, in quanto sacerdote sacrificante (hotŗ), "Dà spiritualmente la loro parte dell'oblazione agli dei (bhāgam), Rig Veda Saмhitā X.51.7 [ Ite missa est!]. In questo ultimo caso il sacrificatore o sacerdote sacrificante è il vibhaktŗ, e la sostituzione del vibhaktŗ vedico con il bhakta non in-troduce nessuna concezione nuova.

Bhakti implica devozione, poiché ogni donazione presuppone amore ma da ciò non consegue che bhakti debba essere tradotto con "amore." È certo che la bhakti-mārga è anche la prēma-mārga, la passiva "Via" dell'Amore, che si distingue del jŋāna-mārga, l'attiva "Via" della Gnosi; ma che le espressioni bhakti-mārga e prēma-mārga abbiano un riferimento comune non le fa sinonimiche, le espressioni sono "sinonimiche" solo quando si riferiscono alla stessa cosa sotto lo stesso aspetto.

Non si può negare che i pitarah, in Rig-Veda Saмhitā I.91.1, erano bhakta in questo ultimo senso, o che la loro fosse una bhakti-mārga. Noi dovremmo tradurre bhakti-mārga per "Via" della Consacrazione o "Via" della Devozione piuttosto che con "Via dell'Amore”. È certo, ugualmente, che "partecipazione" implica "amore", e viceversa, dato che un amore che non partecipa alla cosa amata non è assolutamente "amore" bensì piuttosto "desiderio." Tuttavia, l'Amore e la partecipazione sono concezioni che si differenziano in modo logico e ognuna delle quali gioca un suo proprio ruolo nella definizione dell'atto devozionale; quando le due espressioni si confondono in una traduzione equivoca, non solo si perdono queste sfumature di si-gnificato ma contemporaneamente si nasconde l'evidenza dalla continuità del pensiero vedico col pensiero posteriore, evocando così dei problemi irreali.

Vogliamo dunque esprimere il nostro plenum accordo coi punti di vista di Franklin Edgerton che conclude-va che «tutto ciò che è esposto, almeno nelle Upanişad più antiche, quasi senza eccezione, non è nuovo nelle Upanişad ma è già stato enunciato, o almeno molto chiaramente prefigurato, nei testi vedici più anti-chi»14, e con quelli di Maurice Bloomfield che argomentava "che mantra e Brāhmaŋa non sono in assoluto distinzioni cronologiche; ma rappresentano due modi di attività letteraria e due modi di linguaggio lettera-rio che sono ampiamente contemporanei … Entrambe le forme esistettero giunte, per quanto sappiamo, dai tempi più antichi; solo che la redazione delle collezioni di mantra sembrano avere preceduto, in com-plesso, la redazione dei Brāhmaŋa … Gli inni del Rig-Veda, come quelli degli altri tre Veda, furono liturgici dall’inizio stesso. Questo significa che essi formano solo un frammento … i testi ed i commenti posteriori possono contenere la spiegazione corretta»15; anche Bloomfield, con riferimento alle parti più antiche del Rig-Veda, lo chiama "l'ultima stesura, con un lungo e intricato passato oltre a sé, di un'attività letteraria di grande ed indefinita estensione»16.

Siamo di accordo con Alfred Jeremías, quando dice nella Prefazione a suo Altorientalische Geisteskultur (Berlino) 1929,: «Die Menschenheitsbildung ist ein einheitliches Ganzes, und in den verschiedenen Kulturen findet man die Dialekte der einen Geistessprache»; con Carl Anders Scharbau, «Die Idei der Sch.pfung in der vedischen Literatur» Stuttgart, 1932, "die Tiefe und Grösse der theologischen Erkenntnis da' Rigvedas Keine-swegs hinter der da' Vedanta zurücksteht»17; e finalmente con Sāyaŋa quando sostiene che nessuno dei rife-rimenti vedici è storico.

È proprio il fatto che gli incantesimi (mantra) vedici sono liturgici a rendere irrazionale sperare in una loro esposizione sistematica in una filosofia stabilita; se consideriamo i mantra in se stessi, è come se cercassi-mo di dedurre la filosofia scolastica partendo solo dal libro dalla Messa. Non è che questo sia impossibile, ma saremmo accusati di leggere nella Messa significati che potrebbero non essere stati presenti nella men-talità prevalente nella "Età Oscura"; saremmo accusati di cedere, come dice il Professore Keith che non può essere accusato di una tale debolezza, al «nostro desiderio naturale … di trovare la ragione dominare in un'età barbara». Tuttavia, tanto i mantra come gli inni latini sono minuziosamente elaborati, il loro sim-bolismo opera con un'esattezza matematica, Emile Mâle parla del simbolismo cristiano come di un "calco-lo" e noi non possiamo supporre che i suoi autori non comprendessero le loro stesse parole; siamo noi che non comprendiamo, se insistiamo nel leggere l’algebra come se fosse aritmetica. Tutto quello che possia-mo imparare della storia della letteratura è che le dottrine che si danno per scontate nei mantra non furono pubblicate, probabilmente, fino a quando un certo cambiamento linguistico non avesse già avuto luogo; possiamo trovare alcune parole nuove, ma non troveremo idee nuove. Siamo noi i difettosi se non possia-mo capire che MitrāVaruŋa dei quali il secondo [Varuŋa] è il fratello immortale del "mortale" [Mitra], non sono altro che quell’apara-brahman e para-brahman che le Upanişad chiamano rispettivamente il mortale e l’immortale.

La stessa cosa relativamente alle liturgie babilonesi, dove è probabilmente esistita anche una "letteratura sapienziale … non formulata per essere ripetuta nei templi»18, come si deve accettare che esisteva il con-cetto di un "unico Dio… [i cui] differenti aspetti non venivano considerati come divinità separate nel pantheon sumero-accadico»19. Lo stesso nel caso delle liturgie vediche, dove l'apparizione di concetti di un "Uno che è altrettanto vivo e non-vivo" (Rig Veda Saмhitā X.129.2) e di Agni come "essere e non-essere in uno" (sadasat) Rig-Veda Saмhitā X.5.7, non può definirsi sorprendente. Noi non vediamo, allora, nei Brāhmaŋa, Upanişad, Bhagavad Gītā e perfino nel Buddismo, altro che una ultimo adattamento e pubbli-cazione di quello che si conosceva da sempre, sia che fosse insegnato ai già iniziati o fuori in quei circoli la cui esistenza è implicita per la forma brahmōdaya di molti inni; e da Brāhmini come quello che, nel Rig-Veda Saмhitā X.71.11, viene menzionato mentre espone la scienza della genesi e che possiamo credere che fosse, come Agni stesso, un «Conoscitore delle generazioni di tutte le cose» Rig-Veda Saмhitā VI.15.13; cf. IV.27.1.

NOTE(E1) Yaska è stato un grammatico sanscrito antecedente a Panini (che è del 4° secolo aC), si presuppone che sia stato attivo nel 5 ° o 6° secolo a C. È l'autore del Nirukta, trattato sulla tecnica dell’etimologia, categoria lessicale e semantica delle parole. Si pensa che sia stato allievo di Śākahāyana, un vecchio e grammatico, espositore dei Veda, menzionato nel suo testo.

1 in realtà, è Viśvakarmā, l'Artefice di Tutte le Cose, che dà i suoi "nomi", cioè, suo essere individuale, agli dei e quindi è chiamato devānām nāmadhāĥ, X.82.3.
→ ogni attività è solamente il nome "di un atto di Brahma", Brhadāraņyaka Upanişad I.4.7;
→ "tutte le attività sorgono dallo Spirito". idem I.6.3;
→ "ogni azione germoglia da Brahma", Bhagavad Gītā III.5;
Lo stesso concetto viene esposto, con le stesse parole,anche in Mastro Eckhart, ed. Evans, II, 175.

2 quasi verbalmente identico con Jan Van Ruysbroeck, "è dovuto alla Sua incomprensibile nobiltà e sublimità che noi non possiamo nominarLo abilmente né esprimerLo interamente, così Gli diamo tutti questi nomi" Adornment of the Spiritual Marriage, XXV. "Perché considero impossibile che Quello che è l'artefice dell'universo in tutta la sua grandezza, il Padre o Sigore di tutte le cose, possa essere conosciuto con un unico nome; sostengo che Egli è senza nome, o piuttosto che tutti i nomi siano i Suoi nomi. Perché Egli, nella sua unità, è tutte le cose; in modo che noi dobbiamo chiamare tutte le cose con il loro nome, oppure chiamarlo con il nome di tutte le cose", Hermes (Asclepius III.20A).

3 «il Vento è onnipresente» [Jaiminīya Upanişad Brāhmaņa IV.12.10]; «e così, come dice Krishna, non c'è nessun fine per le mie presenze divine» [Bhagavad Gītā X.40]. Sono queste "presenze" o "poteri" che vengono chiamati con molti nomi.

E2 kavayah, reso in traduzione con saggi, formatori, cantori; sono i Ŗsi "cantori ispirati" o “cantori estatici”. I Veda fu-rono rivelati a loro, che la "ascoltarono" per trasmetterli agli uomini Gli Ŗsi non sono deva né asura ma non corrispon-dono nemmeno ad esseri umani comuni essendo alcuni di loro di discendenza divina, la loro era un'era mitica e pri-mordiale, anzi i sette Ŗsi partecipano in qualche modo alla creazione del mondo.

E3 gli inni dei Veda, “ascoltati” dai Ŗsi all’atto della creazione del mondo e nell’epoca primordiale.
4 Cf. PB XX.15.2-2 dove le sfere di azione di Agni, Vāyu e Āditya sono dette sue "parti" o "pezzi" (bhaktiĥ).

5 un'ontologia di questo tipo non può propriamente essere definita panteista o monista. Questo sarebbe legittimo solo se, quando si è analizzato l'essenza nei suoi multipli aspetti, non rimanesse nulla, al contrario, tutte le scritture indù, incominciando dal Rig-Veda, concordano nell'affermare che quello che resta del Sé eccede la totalità di quello che serve per riempire questi mondi, e che questa fonte rimane inalterata da tutto quello che produce o riassorbe dal principio alla fine di un eone. Il punto di vista che tutta questa sia una teofania non significa che si veda tutto del Sé; al contrario, per così dire, "solamente una parte" della sua abbondanza, basta per riempire i mondi di tempo e spazio, per lontano che possano estendersi, per molto che possano durare [Rig-Veda Saмhitā X.90.3, cf. Maitri Upanişad VI.35, Bhagavad Gītā X.42]. Cf. Whitby nella prefazione alla versione inglese di René Guénon, L'Uomo ed il suo divenire secondo il Vedanta (Parigi) 1925: "È da sperare che questo libro dia il colpo di grazia al pregiudizio assurdo e inspiegabile che persistentemente sottovaluta la dottrina vedica in merito al suo supposto "panteismo." Questa insistenza …", e Lacombe, nella prefazione di René Grousset, Les Philosophies indiennes (Parigi) 1931,: "È necessario concludere, a nostro giudizio che il Vedanta non è panteista, e neanche monista, soprattutto nel senso che queste parole hanno per noi. Si nomina da sé stesso advaita, non-dualista. La sua preoccupazione di assicurare la trascendenza del Brahman non meno che la sua immanenza, di mantenere l'interiorità della sua Gloria, è manifesta. Posizione irriducibile…"; e Coomaraswamy, Una Nuovo Aproximaciòn ai Veda: Una Prova di Traducciòn ed Exégesis, 1933, p. 42. Si potrebbe aggiungere che si può fare un'obiezione simile anche riguardo all’uso della parola "Monoteismo" nel titolo di questo articolo. Tad ekam nella Ŗg Vēda Saмhitā X.129.2, è traducibile più come " Identit{ Suprema " che non " Dio unico." È solo in quanto "unico Dio", con tanti aspetti quanti punti di vista dai cui essere considerato, che "Quell’Uno " diviene intelligibile; ma quello che Quell’Uno è in sé stesso lo si può solo esprimere in termini di negazione, per esempio, "senza dualità." Da Erwin Goodenough, An Introduction to Philo Judaeus (New Haven) 1940, p. 105.

6 « si divide in Sé stesso (Ātmanaм vibhajya) per riempire questi mondi», Maitri Upanişad VI.26, etc., Egli rimane "indiviso" in queste divisioni, avibhakta vibhakteşu, Bhagavad Gītā XVIII.20, cf. XIII.16, "incommensurabile, cioè, in-materiale, in mezzo alla cosa misurata" (vimite’mita) Atharva veda Saмhitā X.7.39; amātra, Brihadāraņyaka Upanişad III.8.8, etc.,; gli dei immanenti, i Respiri, prāηāh sono "misurati" dal Fuoco, (tejo-mātrāh Bŗhadāraηyaka Upanişad IV.4.1),) cioè, "del Fuoco sempiterno, che alle volte si accende ed in altre si spegne", Eraclito, Fr.30. "In altre parole, in Lui non ci sono molte esistenze bensì solo un'unica esistenza, e suoi molti nomi ed attributi sono meramente i suoi modi ed aspetti" - Jāmī Law ‘ih XV.
7 Per esempio, Aitareya BrāhmaŋaIII,4: «per quanto uno ricorre, upasāte a Lui come a chi ha di farsi un amico (mitra-kŗttyaiva), quello è la sua forma come l'Amico (mitra)». Nel Kailāyamalai, Ŝiva è invocato come "Tu che prendi le for-me immaginate dai tuoi adoratori", vedere Ceylon National Review, Gennaio 1907, p. 285.]

E4 Esemplarismo = Concezione metafisica che assume una realtà ideale come modello del mondo sensibile. Nato da un ragionamento analogico, l'esemplarismo trova una sua prima espressione in Platone con la dottrina del demiurgo, che plasma la materia guardando i modelli eterni delle Idee; Plotino rimase sulla stessa linea, sostituendo però al de-miurgo l'Anima universale. (vedere Coomaraswamy, "Esemplarismo Vedico", capitolo successivo)

8 Max Müller inventò il termine "enoteismo" per descrivere il metodo che egli immaginò come peculiare dei Veda. Il cristianesimo, quindi, sarebbe "enoteista" nel misura in cui afferma che quello pertiene ad una dalle Persone pertiene a tutte, e viceversa. Un "enoteismo" pienamente sviluppato è più caratteristico dello Stoicismo e di Filone, cf. Émile Bréhier, Les Idées philosophiques et religieuses di Philon d’Alexandrie (Parigi) 1925, pp. 112, 113: "La concezione di dei mirionimi (con mille nomi), di un dio unico alle cui differenti forme si dirigevano le preghiere degli iniziati era familiare allo stoicismo … come negli inni orfici, l'onnipotenza di ogni Dio non ostacola la sua gerar-chia, e così pure qui [cioè, secondo Filone] gli esseri sono con molta frequenza classificati gerarchicamente come se si trattasse di esseri distinti." [E Plotino V.8.9, "Egli e tutto ha un'unica esistenza, benché ognuno sia anche un aspetto distinto. È una distinzione ma è un'identità completa; non c'è tuttavia nessuna partecipazione tra una parte ed un'al-tra. Né ognuna di queste totalit{ divine è un potere frammentato … la realt{ divina è un'unica onnipotenza." Il secon-do passaggio avrebbe potuto essere scritto sulla Trinità Cristiana]. Perciò, qui anche ci troviamo con quell'apparenza superficiale di politeismo con cui l'apologista di qualche altra religione di quella sotto esame risulta tanto convenien-temente ingannato, il musulmano per esempio quando chiama"politeista" la dottrina cristiana della Trinità.

E5 i Ŗşi

9 Analogamente a Vāc, gli dei "dividono" la Mater Magna e le fanno occupare molte stazioni, Rig-Veda Saṁhitā X.125.3. In tutti questi passaggi è evidente come l'unità divina sia essenziale e la molteplicità concettuale.

10 [Rig-Veda Saṁhitā 146.4] come in San Giovanni 1:4, «et vita erat et lux hominum». Il Sole Spirituale del Rig-Veda Saмhitā I.115.1, etc., è la "Luce delle luci, (jyotiśām jyotis) Rig-Veda Saмhitā I.113.1, Bŗhadāraŋyaka Upaniśad IV.4.16, etc.,; "La brillante Luce delle luci è quella che i conoscitori dello Spirito, atmā - vidaĥ, conoscono"(Muŋdaka Upaniśad II.2.10)] il "Padre" delle luci (San Giacomo I:17).

E6 Tvastar, nei Veda è il creatore per arte, appellativo a volte dato a Hiranyagharbha, Prajapathy o a Brahma, menzio-nato anche nei testi sui Mitanni è considerato una divinità proto-indoiraniana, come appellativo è anche riferito a Ra-thakāra, il costruttore del carro del sole, è una divinità solare.

E7 Savitŗ letteralmente il termine significa stimolatore, agitatore; Nella religione vedica , Savitŗ o Savita ( nominativo singolare ) è una divinità solare e uno dei 12 Aditya, i raggi del sole, discendenti di Aditi, la prima . Il suo nome in san-scrito vedico "girante, agitatore, vivificatore" lo connota. Savitr è stata celebrata in undici canti tutto il Rig Veda e in alcune parti di molti altri, il suo nome è citato circa 170 volte in totale. Nel moderno induismo , Savitr non è diretta-mente adorato, tuttavia il sacro mantra Gayatri è dedicato a questo Dio.

11 come nella Summa Theologica I.13.1 ad 3, «Pronomina vero demonstrativa dicuntur de Deo, secundum quod fa-ciunt demonstrationem ad id quod intelligitur, non ad id quod sentitur. Secundum enim quod a nobis intelligitur, se-cundum hoc sub demonstrationem cadit».

12 Ad esempio, Atharva Veda Saмhitā XIII.3.13, "Questo Agni diviene Varuŋa di pomeriggio; l’indomani è Mitra", etc.; Jaimin´ya Upani·ad BrāhmaŋaIII.21.1-2, dove il Vento, Vāyu, soffia dai cinque quadranti - est, sud, ovest, nord e dall’alto - rispettivamente come Indra, śāna, Varuŋa , Soma e Prajāpati; Jaiminīya Upanişad Brāhmaŋa IV.5.1, dove Agni, "il messaggero di Varuŋa ", diviene Savitŗ all'alba, Indra Vaikuŋţha a mezzogiorno, Yama di sera; Jātaka IV.137, "Sujampati, nel cielo conclamato; come Maghavā, sulla terra si nomina."

E8 √bha = divenire ma anche “essere”. Infatti le forme verbali irregolari del verbo essere in latino e quindi anche in ita-liano, come “io fui, tu fosti, ecc...” derivano da questa radice. È normale che la labiale aspirata, Ph o Bh, nel tempo si trasaformi nella fricativa F.

13 il nome Tanūnapāt, "Nipote di Sé stesso", formula la dottrina ben conosciuta che "Agni è acceso da Agni", Rig-Veda Saмhitā I.126, VIII.43.14, secondo la quale, nel rituale, il nuovo Gārhapatya deve essere acceso dal vecchio. Cf. Sum-ma Theologica III.32A ad I, "la presa stessa, cioè, l'assunzione della natura umana, la presa di nascita, si attribuisce al Figlio", cioè, è l'atto proprio del Figlio tanto quanto quello delle altre Persone.

14 Journal of the American Orientale Society, XXXVI (1917), p. 197.

15 Journal of the American Orientale Society, XV, 1893, p. 144.

16 Journal of the American Orientale Society, XXIX (1908), p. 288.

17 P. 168, nota 166.
18 Stephen Herbert Langdon, Tammuz and Ishtar (Oxford) 1914, p. 11.

19 Henri Frankfort, Iraq Excavations of the Orientale Institute, 1932/1933 (Chicago) 1934, I, p. 47.