giovedì 1 dicembre 2011

MONOTEISMO VEDICO


QUESTO ARTICOLO FU PUBBLICATO PER LA PRIMA VOLTA SUL DR. S. KRISHNASWAMI AIYANGAR
COMMEMORATION VOLUME (MADRAS) 1936 E FU RIPROPOSTO DAL JOURNAL OF INDIAN HISTORY, XV, 1936.
QUI SI OFFRE UNA SECONDA VERSIONE, CON SUCCESSIVE REVISIONI ED UN'ADDENDA DELL'AUTORE.

ANANDA KENTISH COOMARASWAMY

Un solo Fuoco viene acceso in molti luoghi,
un solo Sole è presente per uno ed in tutto,
una sola Aurora illumina questo tutto:
quello che è Uno solo diventa questo tutto.
Rig-Veda VIII.58.2

Nella maggiore parte dei casi, l'erudizione moderna postula che nella metafisica indù il concetto di Principio Unico sia solo uno sviluppo posteriore in cui i diversi dei diventano, per così dire, poteri o aspetti operativi o attributi personificati. Però, già Yāska (E1) insegna che è proprio per la gran divisibilità del principio il motivo per cui gli sono applicati molti nomi, uno dopo l’altro: «Gli altri dei diventano (bhavanti) parti secondarie dello Spirito Unico … il loro divenire è una nascita l’uno da un altro, sono di una natura comunicata; nascono nella funzione(1) (karma); lo Spirito è la loro origine … lo Spirito (Ātman) è il tutto di quello che un Dio è» (NIRUKTA VII.4).
Analogamente nella BŖĀD DEVATĀ I.70-74 vien detto: «è per l’immensit{ dello Spirito che lo chiamiamo con tanta diversità di nomi,2 a seconda dell’assegnazione delle sue sfere.» I nomi sono innumerevoli solo in quanto sono "differenziazioni", "presenze"3. I grandi saggi (E2) (kavayah), nei loro inni (E3) (mantrēśu) dicono che le divinità hanno una fonte comune; si chiamano con differenti nomi secondo gli ambiti in cui sono stabiliti4. Alcuni dicono che partecipano di quello, o che tale è la loro derivazione; ma per quel che riguarda
la Trinità dei sovrani del mondo, si capisce bene che la totalità della loro partecipazione (bhaktih) è nello Spirito (Ātman)»5

I passaggi precedenti illustrano il metodo normale della teologia in ogni esame de divinis nominibus, quan-do il riconoscimento delle diverse operazioni di un principio unico dà origine all'apparenza superficiale di un politeismo. Anche nel cristianesimo, per esempio, si dice: "noi non diciamo l'unico Dio, perché la divini-tà è comune a vari" (Summa Theologica I.31.2C); più ancora, "Creare esseri appartiene a Dio secondo il Suo proprio essere, cioè, la Sua essenza, che è comune alle tre Persone. Di qui che creare non è peculiare ad un'unica Persona, bensì comune a tutta la Trinità", Summa Theologica I.45.6C e bisogna capire bene che "Benché i nomi di Dio abbiano un unico riferimento comune, tuttavia, poiché il riferimento si fa sotto molti e differenti aspetti, questi nomi non sono sinonimici … I molteplici aspetti di questi nomi non sono vuoti e vani, perché corrisponde a tutti loro un'unica realtà rappresentata da ognuno di loro in una maniera diversa ed imperfetta", Summa Theologica I.13.a ad 216.
Sāyaŋa nel Śatapatha Brāhmaŋa (I.6.1.20) dice: «Prajāpati è inesplicito poiché Egli è essenzialmente tutti gli dei per questo che di Lui non si può dire che "È questo o quello" ma solo che "Egli è."»
Così anche Ermete Trismegisto: «Possiamo dire che è corretto attribuirgli il nome di "Dio” o quello di Arte-fice o quello di Padre,? No, i tre nomi sono Suoi ed Egli è giustamente chiamato "Dio" in ragione del Suo potere, "Artefice" in ragione dell'opera che fa e "Padre" in ragione della Sua bontà" [Lib. XIV.4].
Plotino, allo stesso modo, scrive nelle enneadi: «La vita delle stelle dotate di anima è identica, poiché sono unite all'Anima del Tutto, in modo che il loro movimento spaziale stesso ha il suo centro nella loro identità e si risolve in un movimento che non è spaziale ma vitale», Enn. IV.4.8.

È ben conosciuto che queste concezioni dell'identità del Primo Principio con tutti i suoi poteri sono continui nei Brāhmaŋa e nell'Atharva Veda. Ad esempio si può trovare, nel Ŝatapatha Brāhmaηa X.5.2.16: «in quanto a questo dicono, "Allora la Morte è uno o molti?." Uno deve rispondere, "Uno e molti." Dunque, mentre Egli è Quello, la Persona nel Sole, Egli è anche uno; e nello stesso tempo Egli è molteplicemente distribuito nei Suoi figli ed Egli è molti», passo che deve essere letto insieme al verso 20: «Come uno Lo cerca, così egli diventa»7 ed Atharva Veda Saмhitā VIII.9.26, «Un unico Toro, un unico Profeta, un'unica Casa, un'unica Ordinanza, un unico Yakşa nel Suo terreno, un'unica Stazione che non si svuota mai»; ed nell’Atharva Veda Saмhitā I.12.1, Agni è descritto come "Un'energia il cui progressione è tripla, (ekam ojas tredhā vicakrame)».

La critica passa molto spesso sopra al fatto che questo punto di vista sia sostenuto esplicitamente e ripetu-tamente nel Rig-Veda da non lasciare posto ad alcun equivoco. Un esame completo della formulazione ve-dica del problema dell'uno e dei molti richiederebbe un esteso studio sull'esemplarismo (E4) vedico, ma vo-gliamo richiamare l'attenzione sull'espressione viŝvam ākam, "molteplicità integrale", del Rig-Veda Saмhitā III.54.8. Tutto quello che ci si propone ora è di riunire alcuni dei più notevoli tra i testi vedici in cui si afferma categoricamente l'identità dell'uno e molti ed aggiungere che anche se nessuna di queste af-fermazioni esplicite fosse disponibile, la legge che esprimono potrebbe comunque essere indipendente-mente dedotta da un'analisi delle funzioni attribuite ai differenti poteri, perché benché queste funzioni sia-no caratteristiche di divinità particolari, non sono mai interamente peculiari di nessuna di loro8.

Passaggi molto familiari, spesso rifiutati perché "tardivi", includono (Rig-Veda Saмhitā I.164.46): "I sacer-doti chiamano in molti modi differenti (bahudhī vadanti) Quello che è solo Uno; lo chiamano Agni, Yama, Mītrāhvarunā, lo chiamano Indra, Mitra, Varuŋa, Agni, o dicono che è «l’aquila celeste Garutmān" o (Rig Veda Saмhitā X.114.5): «I cantori in estasi E5 (viprāū kavaya) concepiscono in molti modi l'aquila che è U-no»; e in X.90.11, dove, dopo che i Primi Sacrificatori hanno diviso il Primo Essere, si fa questa domanda alla maniera brahmōdaya, «Quanti multipli gli pensarono?»9. È questa la fine (artham) che Agni teme men-tre si trattiene nell’oscurit{: che lo si mandi ad abitare in molte sedi, per fortuna nella realtà, nonostante Egli proceda, rimane interiore.
Nello stesso modo si esprime Mastro Eckhart, "il Figlio rimane dentro come essenza e procede come per-sona … la natura divina si manifesta in una relazione di “alterità”, altro ma non un altro, perché questa di-stinzione è razionale, non reale.

«Ai Cantori Egli si manifestò come il Sole degli uomini10. Come in Plotino, V.8.9, "Il sole è l'unico Dio … quale posto può essere nominato che Egli non raggiunga?." Inoltre, sono altrettanto esplicite le affermazioni che si raccolgono in altri libri. In merito, si dice spesso che Egli ha due forme differenti, secondo il Suo essere di Giorno o di notte, e che questo è "come Egli vuole", (Rig-Veda Saмhitā III.48.4, VII.101.3; cf. X.168.4 e Atharva-Veda Saмhitā VI.72.1). A volte questo concetto è e-spresso in termini come «Ora Egli è sterile, ora genera» Rig-Veda Saмhitā VII.103.3, questa ultima espressio-ne, è la stessa del termine sùh nel Rig-Veda Saмhitā (I.146.5) ed equivale a dire savitŗ bhavati, "Egli diviene Savitŗ¨." Cf. Rig-Veda Saмhitā III.55.19 e X.10.5, dove Tvaşţŗ E6 e Savitŗ E7 si identificano per apposizione.

Nel Rig-Veda Saмhitā III.20.3 e VIII.93.17, Agni ed Indra sono chiamati polinominalmente bhurīŋi-nāma = dai molti nomi e puru-nāma = dai numerosi nomi ed in II.1, Agni è invocato con i nomi di quasi tutti i poteri, ci sono inoltre innumerevoli passaggi in cui Indra è una designazione del Sole.
Nel Rig-Veda Saмhitā VIII.11.8 è scritto che Agni «deve essere visto in molti posti, o aspetti differenti» [cf. I.79.5 e VI.10.2, Agni purvanīkah]. «benché la Sua somiglianza sia la stessa in molti posti, tuttavia, il Suo di-venire è multiplo ed a Lui gli sono dati molti nomi, perché "Come Egli si mostra, così Egli è chiamato"» (Rig-Veda Saмhitā V.44.6)11, un passo del Śatapatha Brāhmaŋa X.5.2.20, è poco più che una parafrasi.

Rig-Veda Saмhitā I.146.5, coincide con innumerabili passi sparsi per tutto il Rig-Veda, dove Agni è concor-de con Mitra,Varuŋa e Mātariŝvān; in IV.42.3, Varuŋa si autoidentifica con Indra e Tvaşţŗ; analogamente in RV.3.1-2, Agni è identificato con Mitra, Varuŋa e con Indra. Questo non è una questione di mera sugge-stione; i punti di vista particolari propri ai differenti nomi sono accuratamente espressi. [Allo stesso modo, se Agni, come Sole, è il "viso" o la "freccia", (anīkā) degli dei, Rig-Veda Saмhitā I.115.1, VII.88.2, etc., e con-temporaneamente è logicamente detto "dai molti visi" (pūrvanīkah), "questo non fa del Dio eterno qualco-sa di reale, ma solo accorda quell’idea al nostro modo di pensare", Summa Theologica III.35.5C, perché "Gli uomini, nel loro culto sacrificale, hanno imposto su Te, Agni, i molti visi". I "visi" o "frecce" dell'Agni solare sono in realtà i suoi "raggi", quegli stessi raggi coi quali il Sole Spirituale sostiene l'essere di tutte le cose, ma con cui è occultata la Porta solare, in modo che quello che vuole entrare supplica, quindi, che i raggi siano dispersi.

Espresso altrimenti, Agni è l'Albero della Vita (vanaspati) «Gli "altri fuochi" sono i tuoi rami», Rig-Veda Saмhitā I.59.1,: «Tutti gli altri Agni germogliano da te, oh Agni»; «Tutte queste divinità sono forme di A-gni», Aitareya Brāhmaŋa III.412. In molti casi il verbo bhāE8, "divenire", come appare nei testi Brāhmaŋa e Nirukta già citati, è impiegato nel Rig-Veda per indicare nello stesso verso il passaggio di un nome o fun-zione ad un altra. Per esempio, Rig-Veda Saмhitā III.5.4, "Agni diviene (bhavati) Mitra quando è acceso, Mi-tra il sacerdote; e Varuŋa diviene Jātavādas"; cf. IV. 42.3, "io, Varuŋa , sono Indra", e V.3.1-2, "Tu, Agni, sei Varuŋa e nascendo divieni (bhavasi) Mitra, quando sei acceso in te, oh Figlio della Forza, abitano gli dei U-niversali; sei Indra per l'adoratore mortale. Per le donzelle sei Aryaman, e come Svadhāvan porti un nome segreto» probabilmente come Trita del passo I.163.3: «Tu sei Trita per l'operazione interna, così…»
Nuovamente, Rig-Veda Saмhitā III.29.11, "Come Germe di Titano eleva a Tanūnapāt13, quando nasce è Narasāŋsa, quando si forma nella Madre diviene Mātariśvān, il Vento degli Spiriti nel suo corso".
Questoo Spirito in realt{ è l’Essenza stessa di Varuŋa ed il soffio di Vāc, un vento la cui forma non si vede ma che è l'Essenza (ātmā ) di tutti gli dei e che si muove come vuole (X.168.4).

Ai passaggi precedenti, nei quali si considerano gli effetti diversificati di quello che è realmente un'opera-zione unica, si può unire quanto esposto nel Rig-Veda Saмhitā VI.47.18, «Egli è la controforma (matrice) di ogni forma, è quella forma di Lui quello che dobbiamo contemplare; Indra, per virtù dei Suoi poteri magici, procede come multiforme», un passaggio che è in stretta corrispondenza con «la forma unica che è la for-ma di molte cose differenti» di Mastro Eckhart, parole che riassumono la dottrina dell'esemplarismo scola-stico. E mentre in X.5.1 solo Agni è “ŗtupati” (Signore delle Epoche) in Rig-Veda Saмhitā VI.9.5, "I Moltepli-ci Dei, con una mente comune ed una volontà comune, si muovono senza fallo nella stagione unica", il ver-so citato sopra corrisponde strettamente a quanto detto nella Summa Theologica III.32, 1 ad 3, dove quello che fa una delle Persone della Trinità si dice è fatto da tutte, «poiché ci sono un'unica natura ed una unica volontà». Nel Śatapatha Brāhmaŋa VIII.7.3.10: «Il Sole incorda questi mondi nel suo Spirito come su di un filo», Bhagavad Gītā VII.7, «Tutto questo è incordato in "Me», e X.20, «Io sono lo Spirito che ha sede nel cuore di tutti gli esseri», ripete meramente il pensiero di Rig-Veda Saмhitā I.115.1, «Il Sole è lo Spirito (āt-man) di tutto quello che è in movimento o in riposo». Nel Rig-Veda Saмhitā X.121.2, Hiranyagarbha (Agni) Prajapati, è chiamato il "datore" dello Spirito (ātmadā), ed è in questo senso che Agni, in I.149.3, è "di cen-tuplice Essenza" (śatātmā).

Nel Rig-Veda Saмhitā X.51.7 si invoca ad Agni perché dia la sua "parte" (bhāgam) agli dei; quella è la sua funzione peculiare come sacerdote (purohita) degli dei. Quindi, è sufficientemente chiaro che il Nirukta ed la Bŗhad Dēvatā siano pienamente giustificati nel dire che gli dei partecipano (bhakta) dell'Essenza o espi-razione divina; questi testi mantengono perfino la fraseologia dei mantra vedici. Il riferimento alla "parte-cipazione" ci conduce alla considerazione del Bhaga vedico, posteriormente Bhagavānā. Bhaga non è un nome personale è piuttosto una designazione generica del potere attivo in uno qualsiasi dei suoi aspetti, mentre il "Libero Donatore" o il "Partecipante" che fa che la sua bhakti partecipi alle sue ricchezze. Queste ricchezze possono essere solo gli aspetti della Sua Essenza perché, certamente, noi non possiamo conside-rare la divinit{ come “proprietaria” di un qualcosa di più di quello che Esso stesso è. «Comunicandosi a sé stesso, Egli riempie completamente questi mondi» Questo ultimo è un testo upanishadico (Maitri Upani-şad VI.26), ma il concetto è vedico.

In realtà, Bhaga riceve per apposizione il nome di "Dispensatore" (vibhaktŗ) Rig-Veda Saмhitā V.46.6.
Bhaga è "partecipazione" o "dispensazione", come nel Rig-Veda Saмhitā II.17.7, diretto ad Indra, "Io ti im-ploro, oh Bhaga … valutami, tendimi, dammi quella parte (bhāgam) con cui il corpo è elevato)", dove bhā-gam = amŗtasya bhāgam, in I.164.21, cf. anche VIII.99.3, "Dipendendo da Lui, come dal Sole, i Molti (viŝve devam) hanno partecipato di quello che è di Indra"; in una lode diretto ad Agni si dice che i Molti "parteci-pano della tua divinità", VII.81.2 è la preghiera all'alba: "Siamo associati nella partecipazione".
Questi passaggi sono indubbiamente sufficienti per chiarire che Bhaga e vibhaktŗ sono il dispensatore o il datore che si dà sé stesso o la sua sostanza; sambhāja il partecipante che partecipa al dono; bhāga, bhakşa, e bhakta la parte che si dà o che si riceve. Benché queste espressioni siano vediche, bhakti, l'atto della di-stribuzione, o di fare condividere quello che si dà, e bhakta come sinonimo di vibhaktŗ, il donatore, appaio-no solo più tardi.

Il problema della "origine del movimento bhakti", che è stata tanto discussa, non sarebbe mai esistito se si fossero mantenute queste interpretazioni nelle traduzioni dei testi posteriori, specialmente quella della Bhagavad Gītā. Bhakta, nel Rig-Veda, può essere la parte del "tesoro" ottenuta dal sacrificatore dalla divi-nità, Rig-Veda Saмhitā IV.1.10, o, inversamente, la parte che il sacrificatore d{ o assegna alla divinità, Rig-Veda Saмhitā I.91.1, Specialmente Agni, in quanto sacerdote sacrificante (hotŗ), "Dà spiritualmente la loro parte dell'oblazione agli dei (bhāgam), Rig Veda Saмhitā X.51.7 [ Ite missa est!]. In questo ultimo caso il sacrificatore o sacerdote sacrificante è il vibhaktŗ, e la sostituzione del vibhaktŗ vedico con il bhakta non in-troduce nessuna concezione nuova.

Bhakti implica devozione, poiché ogni donazione presuppone amore ma da ciò non consegue che bhakti debba essere tradotto con "amore." È certo che la bhakti-mārga è anche la prēma-mārga, la passiva "Via" dell'Amore, che si distingue del jŋāna-mārga, l'attiva "Via" della Gnosi; ma che le espressioni bhakti-mārga e prēma-mārga abbiano un riferimento comune non le fa sinonimiche, le espressioni sono "sinonimiche" solo quando si riferiscono alla stessa cosa sotto lo stesso aspetto.

Non si può negare che i pitarah, in Rig-Veda Saмhitā I.91.1, erano bhakta in questo ultimo senso, o che la loro fosse una bhakti-mārga. Noi dovremmo tradurre bhakti-mārga per "Via" della Consacrazione o "Via" della Devozione piuttosto che con "Via dell'Amore”. È certo, ugualmente, che "partecipazione" implica "amore", e viceversa, dato che un amore che non partecipa alla cosa amata non è assolutamente "amore" bensì piuttosto "desiderio." Tuttavia, l'Amore e la partecipazione sono concezioni che si differenziano in modo logico e ognuna delle quali gioca un suo proprio ruolo nella definizione dell'atto devozionale; quando le due espressioni si confondono in una traduzione equivoca, non solo si perdono queste sfumature di si-gnificato ma contemporaneamente si nasconde l'evidenza dalla continuità del pensiero vedico col pensiero posteriore, evocando così dei problemi irreali.

Vogliamo dunque esprimere il nostro plenum accordo coi punti di vista di Franklin Edgerton che conclude-va che «tutto ciò che è esposto, almeno nelle Upanişad più antiche, quasi senza eccezione, non è nuovo nelle Upanişad ma è già stato enunciato, o almeno molto chiaramente prefigurato, nei testi vedici più anti-chi»14, e con quelli di Maurice Bloomfield che argomentava "che mantra e Brāhmaŋa non sono in assoluto distinzioni cronologiche; ma rappresentano due modi di attività letteraria e due modi di linguaggio lettera-rio che sono ampiamente contemporanei … Entrambe le forme esistettero giunte, per quanto sappiamo, dai tempi più antichi; solo che la redazione delle collezioni di mantra sembrano avere preceduto, in com-plesso, la redazione dei Brāhmaŋa … Gli inni del Rig-Veda, come quelli degli altri tre Veda, furono liturgici dall’inizio stesso. Questo significa che essi formano solo un frammento … i testi ed i commenti posteriori possono contenere la spiegazione corretta»15; anche Bloomfield, con riferimento alle parti più antiche del Rig-Veda, lo chiama "l'ultima stesura, con un lungo e intricato passato oltre a sé, di un'attività letteraria di grande ed indefinita estensione»16.

Siamo di accordo con Alfred Jeremías, quando dice nella Prefazione a suo Altorientalische Geisteskultur (Berlino) 1929,: «Die Menschenheitsbildung ist ein einheitliches Ganzes, und in den verschiedenen Kulturen findet man die Dialekte der einen Geistessprache»; con Carl Anders Scharbau, «Die Idei der Sch.pfung in der vedischen Literatur» Stuttgart, 1932, "die Tiefe und Grösse der theologischen Erkenntnis da' Rigvedas Keine-swegs hinter der da' Vedanta zurücksteht»17; e finalmente con Sāyaŋa quando sostiene che nessuno dei rife-rimenti vedici è storico.

È proprio il fatto che gli incantesimi (mantra) vedici sono liturgici a rendere irrazionale sperare in una loro esposizione sistematica in una filosofia stabilita; se consideriamo i mantra in se stessi, è come se cercassi-mo di dedurre la filosofia scolastica partendo solo dal libro dalla Messa. Non è che questo sia impossibile, ma saremmo accusati di leggere nella Messa significati che potrebbero non essere stati presenti nella men-talità prevalente nella "Età Oscura"; saremmo accusati di cedere, come dice il Professore Keith che non può essere accusato di una tale debolezza, al «nostro desiderio naturale … di trovare la ragione dominare in un'età barbara». Tuttavia, tanto i mantra come gli inni latini sono minuziosamente elaborati, il loro sim-bolismo opera con un'esattezza matematica, Emile Mâle parla del simbolismo cristiano come di un "calco-lo" e noi non possiamo supporre che i suoi autori non comprendessero le loro stesse parole; siamo noi che non comprendiamo, se insistiamo nel leggere l’algebra come se fosse aritmetica. Tutto quello che possia-mo imparare della storia della letteratura è che le dottrine che si danno per scontate nei mantra non furono pubblicate, probabilmente, fino a quando un certo cambiamento linguistico non avesse già avuto luogo; possiamo trovare alcune parole nuove, ma non troveremo idee nuove. Siamo noi i difettosi se non possia-mo capire che MitrāVaruŋa dei quali il secondo [Varuŋa] è il fratello immortale del "mortale" [Mitra], non sono altro che quell’apara-brahman e para-brahman che le Upanişad chiamano rispettivamente il mortale e l’immortale.

La stessa cosa relativamente alle liturgie babilonesi, dove è probabilmente esistita anche una "letteratura sapienziale … non formulata per essere ripetuta nei templi»18, come si deve accettare che esisteva il con-cetto di un "unico Dio… [i cui] differenti aspetti non venivano considerati come divinità separate nel pantheon sumero-accadico»19. Lo stesso nel caso delle liturgie vediche, dove l'apparizione di concetti di un "Uno che è altrettanto vivo e non-vivo" (Rig Veda Saмhitā X.129.2) e di Agni come "essere e non-essere in uno" (sadasat) Rig-Veda Saмhitā X.5.7, non può definirsi sorprendente. Noi non vediamo, allora, nei Brāhmaŋa, Upanişad, Bhagavad Gītā e perfino nel Buddismo, altro che una ultimo adattamento e pubbli-cazione di quello che si conosceva da sempre, sia che fosse insegnato ai già iniziati o fuori in quei circoli la cui esistenza è implicita per la forma brahmōdaya di molti inni; e da Brāhmini come quello che, nel Rig-Veda Saмhitā X.71.11, viene menzionato mentre espone la scienza della genesi e che possiamo credere che fosse, come Agni stesso, un «Conoscitore delle generazioni di tutte le cose» Rig-Veda Saмhitā VI.15.13; cf. IV.27.1.

NOTE(E1) Yaska è stato un grammatico sanscrito antecedente a Panini (che è del 4° secolo aC), si presuppone che sia stato attivo nel 5 ° o 6° secolo a C. È l'autore del Nirukta, trattato sulla tecnica dell’etimologia, categoria lessicale e semantica delle parole. Si pensa che sia stato allievo di Śākahāyana, un vecchio e grammatico, espositore dei Veda, menzionato nel suo testo.

1 in realtà, è Viśvakarmā, l'Artefice di Tutte le Cose, che dà i suoi "nomi", cioè, suo essere individuale, agli dei e quindi è chiamato devānām nāmadhāĥ, X.82.3.
→ ogni attività è solamente il nome "di un atto di Brahma", Brhadāraņyaka Upanişad I.4.7;
→ "tutte le attività sorgono dallo Spirito". idem I.6.3;
→ "ogni azione germoglia da Brahma", Bhagavad Gītā III.5;
Lo stesso concetto viene esposto, con le stesse parole,anche in Mastro Eckhart, ed. Evans, II, 175.

2 quasi verbalmente identico con Jan Van Ruysbroeck, "è dovuto alla Sua incomprensibile nobiltà e sublimità che noi non possiamo nominarLo abilmente né esprimerLo interamente, così Gli diamo tutti questi nomi" Adornment of the Spiritual Marriage, XXV. "Perché considero impossibile che Quello che è l'artefice dell'universo in tutta la sua grandezza, il Padre o Sigore di tutte le cose, possa essere conosciuto con un unico nome; sostengo che Egli è senza nome, o piuttosto che tutti i nomi siano i Suoi nomi. Perché Egli, nella sua unità, è tutte le cose; in modo che noi dobbiamo chiamare tutte le cose con il loro nome, oppure chiamarlo con il nome di tutte le cose", Hermes (Asclepius III.20A).

3 «il Vento è onnipresente» [Jaiminīya Upanişad Brāhmaņa IV.12.10]; «e così, come dice Krishna, non c'è nessun fine per le mie presenze divine» [Bhagavad Gītā X.40]. Sono queste "presenze" o "poteri" che vengono chiamati con molti nomi.

E2 kavayah, reso in traduzione con saggi, formatori, cantori; sono i Ŗsi "cantori ispirati" o “cantori estatici”. I Veda fu-rono rivelati a loro, che la "ascoltarono" per trasmetterli agli uomini Gli Ŗsi non sono deva né asura ma non corrispon-dono nemmeno ad esseri umani comuni essendo alcuni di loro di discendenza divina, la loro era un'era mitica e pri-mordiale, anzi i sette Ŗsi partecipano in qualche modo alla creazione del mondo.

E3 gli inni dei Veda, “ascoltati” dai Ŗsi all’atto della creazione del mondo e nell’epoca primordiale.
4 Cf. PB XX.15.2-2 dove le sfere di azione di Agni, Vāyu e Āditya sono dette sue "parti" o "pezzi" (bhaktiĥ).

5 un'ontologia di questo tipo non può propriamente essere definita panteista o monista. Questo sarebbe legittimo solo se, quando si è analizzato l'essenza nei suoi multipli aspetti, non rimanesse nulla, al contrario, tutte le scritture indù, incominciando dal Rig-Veda, concordano nell'affermare che quello che resta del Sé eccede la totalità di quello che serve per riempire questi mondi, e che questa fonte rimane inalterata da tutto quello che produce o riassorbe dal principio alla fine di un eone. Il punto di vista che tutta questa sia una teofania non significa che si veda tutto del Sé; al contrario, per così dire, "solamente una parte" della sua abbondanza, basta per riempire i mondi di tempo e spazio, per lontano che possano estendersi, per molto che possano durare [Rig-Veda Saмhitā X.90.3, cf. Maitri Upanişad VI.35, Bhagavad Gītā X.42]. Cf. Whitby nella prefazione alla versione inglese di René Guénon, L'Uomo ed il suo divenire secondo il Vedanta (Parigi) 1925: "È da sperare che questo libro dia il colpo di grazia al pregiudizio assurdo e inspiegabile che persistentemente sottovaluta la dottrina vedica in merito al suo supposto "panteismo." Questa insistenza …", e Lacombe, nella prefazione di René Grousset, Les Philosophies indiennes (Parigi) 1931,: "È necessario concludere, a nostro giudizio che il Vedanta non è panteista, e neanche monista, soprattutto nel senso che queste parole hanno per noi. Si nomina da sé stesso advaita, non-dualista. La sua preoccupazione di assicurare la trascendenza del Brahman non meno che la sua immanenza, di mantenere l'interiorità della sua Gloria, è manifesta. Posizione irriducibile…"; e Coomaraswamy, Una Nuovo Aproximaciòn ai Veda: Una Prova di Traducciòn ed Exégesis, 1933, p. 42. Si potrebbe aggiungere che si può fare un'obiezione simile anche riguardo all’uso della parola "Monoteismo" nel titolo di questo articolo. Tad ekam nella Ŗg Vēda Saмhitā X.129.2, è traducibile più come " Identit{ Suprema " che non " Dio unico." È solo in quanto "unico Dio", con tanti aspetti quanti punti di vista dai cui essere considerato, che "Quell’Uno " diviene intelligibile; ma quello che Quell’Uno è in sé stesso lo si può solo esprimere in termini di negazione, per esempio, "senza dualità." Da Erwin Goodenough, An Introduction to Philo Judaeus (New Haven) 1940, p. 105.

6 « si divide in Sé stesso (Ātmanaм vibhajya) per riempire questi mondi», Maitri Upanişad VI.26, etc., Egli rimane "indiviso" in queste divisioni, avibhakta vibhakteşu, Bhagavad Gītā XVIII.20, cf. XIII.16, "incommensurabile, cioè, in-materiale, in mezzo alla cosa misurata" (vimite’mita) Atharva veda Saмhitā X.7.39; amātra, Brihadāraņyaka Upanişad III.8.8, etc.,; gli dei immanenti, i Respiri, prāηāh sono "misurati" dal Fuoco, (tejo-mātrāh Bŗhadāraηyaka Upanişad IV.4.1),) cioè, "del Fuoco sempiterno, che alle volte si accende ed in altre si spegne", Eraclito, Fr.30. "In altre parole, in Lui non ci sono molte esistenze bensì solo un'unica esistenza, e suoi molti nomi ed attributi sono meramente i suoi modi ed aspetti" - Jāmī Law ‘ih XV.
7 Per esempio, Aitareya BrāhmaŋaIII,4: «per quanto uno ricorre, upasāte a Lui come a chi ha di farsi un amico (mitra-kŗttyaiva), quello è la sua forma come l'Amico (mitra)». Nel Kailāyamalai, Ŝiva è invocato come "Tu che prendi le for-me immaginate dai tuoi adoratori", vedere Ceylon National Review, Gennaio 1907, p. 285.]

E4 Esemplarismo = Concezione metafisica che assume una realtà ideale come modello del mondo sensibile. Nato da un ragionamento analogico, l'esemplarismo trova una sua prima espressione in Platone con la dottrina del demiurgo, che plasma la materia guardando i modelli eterni delle Idee; Plotino rimase sulla stessa linea, sostituendo però al de-miurgo l'Anima universale. (vedere Coomaraswamy, "Esemplarismo Vedico", capitolo successivo)

8 Max Müller inventò il termine "enoteismo" per descrivere il metodo che egli immaginò come peculiare dei Veda. Il cristianesimo, quindi, sarebbe "enoteista" nel misura in cui afferma che quello pertiene ad una dalle Persone pertiene a tutte, e viceversa. Un "enoteismo" pienamente sviluppato è più caratteristico dello Stoicismo e di Filone, cf. Émile Bréhier, Les Idées philosophiques et religieuses di Philon d’Alexandrie (Parigi) 1925, pp. 112, 113: "La concezione di dei mirionimi (con mille nomi), di un dio unico alle cui differenti forme si dirigevano le preghiere degli iniziati era familiare allo stoicismo … come negli inni orfici, l'onnipotenza di ogni Dio non ostacola la sua gerar-chia, e così pure qui [cioè, secondo Filone] gli esseri sono con molta frequenza classificati gerarchicamente come se si trattasse di esseri distinti." [E Plotino V.8.9, "Egli e tutto ha un'unica esistenza, benché ognuno sia anche un aspetto distinto. È una distinzione ma è un'identità completa; non c'è tuttavia nessuna partecipazione tra una parte ed un'al-tra. Né ognuna di queste totalit{ divine è un potere frammentato … la realt{ divina è un'unica onnipotenza." Il secon-do passaggio avrebbe potuto essere scritto sulla Trinità Cristiana]. Perciò, qui anche ci troviamo con quell'apparenza superficiale di politeismo con cui l'apologista di qualche altra religione di quella sotto esame risulta tanto convenien-temente ingannato, il musulmano per esempio quando chiama"politeista" la dottrina cristiana della Trinità.

E5 i Ŗşi

9 Analogamente a Vāc, gli dei "dividono" la Mater Magna e le fanno occupare molte stazioni, Rig-Veda Saṁhitā X.125.3. In tutti questi passaggi è evidente come l'unità divina sia essenziale e la molteplicità concettuale.

10 [Rig-Veda Saṁhitā 146.4] come in San Giovanni 1:4, «et vita erat et lux hominum». Il Sole Spirituale del Rig-Veda Saмhitā I.115.1, etc., è la "Luce delle luci, (jyotiśām jyotis) Rig-Veda Saмhitā I.113.1, Bŗhadāraŋyaka Upaniśad IV.4.16, etc.,; "La brillante Luce delle luci è quella che i conoscitori dello Spirito, atmā - vidaĥ, conoscono"(Muŋdaka Upaniśad II.2.10)] il "Padre" delle luci (San Giacomo I:17).

E6 Tvastar, nei Veda è il creatore per arte, appellativo a volte dato a Hiranyagharbha, Prajapathy o a Brahma, menzio-nato anche nei testi sui Mitanni è considerato una divinità proto-indoiraniana, come appellativo è anche riferito a Ra-thakāra, il costruttore del carro del sole, è una divinità solare.

E7 Savitŗ letteralmente il termine significa stimolatore, agitatore; Nella religione vedica , Savitŗ o Savita ( nominativo singolare ) è una divinità solare e uno dei 12 Aditya, i raggi del sole, discendenti di Aditi, la prima . Il suo nome in san-scrito vedico "girante, agitatore, vivificatore" lo connota. Savitr è stata celebrata in undici canti tutto il Rig Veda e in alcune parti di molti altri, il suo nome è citato circa 170 volte in totale. Nel moderno induismo , Savitr non è diretta-mente adorato, tuttavia il sacro mantra Gayatri è dedicato a questo Dio.

11 come nella Summa Theologica I.13.1 ad 3, «Pronomina vero demonstrativa dicuntur de Deo, secundum quod fa-ciunt demonstrationem ad id quod intelligitur, non ad id quod sentitur. Secundum enim quod a nobis intelligitur, se-cundum hoc sub demonstrationem cadit».

12 Ad esempio, Atharva Veda Saмhitā XIII.3.13, "Questo Agni diviene Varuŋa di pomeriggio; l’indomani è Mitra", etc.; Jaimin´ya Upani·ad BrāhmaŋaIII.21.1-2, dove il Vento, Vāyu, soffia dai cinque quadranti - est, sud, ovest, nord e dall’alto - rispettivamente come Indra, śāna, Varuŋa , Soma e Prajāpati; Jaiminīya Upanişad Brāhmaŋa IV.5.1, dove Agni, "il messaggero di Varuŋa ", diviene Savitŗ all'alba, Indra Vaikuŋţha a mezzogiorno, Yama di sera; Jātaka IV.137, "Sujampati, nel cielo conclamato; come Maghavā, sulla terra si nomina."

E8 √bha = divenire ma anche “essere”. Infatti le forme verbali irregolari del verbo essere in latino e quindi anche in ita-liano, come “io fui, tu fosti, ecc...” derivano da questa radice. È normale che la labiale aspirata, Ph o Bh, nel tempo si trasaformi nella fricativa F.

13 il nome Tanūnapāt, "Nipote di Sé stesso", formula la dottrina ben conosciuta che "Agni è acceso da Agni", Rig-Veda Saмhitā I.126, VIII.43.14, secondo la quale, nel rituale, il nuovo Gārhapatya deve essere acceso dal vecchio. Cf. Sum-ma Theologica III.32A ad I, "la presa stessa, cioè, l'assunzione della natura umana, la presa di nascita, si attribuisce al Figlio", cioè, è l'atto proprio del Figlio tanto quanto quello delle altre Persone.

14 Journal of the American Orientale Society, XXXVI (1917), p. 197.

15 Journal of the American Orientale Society, XV, 1893, p. 144.

16 Journal of the American Orientale Society, XXIX (1908), p. 288.

17 P. 168, nota 166.
18 Stephen Herbert Langdon, Tammuz and Ishtar (Oxford) 1914, p. 11.

19 Henri Frankfort, Iraq Excavations of the Orientale Institute, 1932/1933 (Chicago) 1934, I, p. 47.

domenica 31 luglio 2011

RAPPRESENTAZIONE "TIFONIANA"
IN UN DIPINTO PREISTORICO.

René Guénon : une représentation « typhonienne » dans une peinture préhistorique.
dal blog d'Abdoullatif

Prof. Frobenius Leo e Douglas C. Fox.

Pitture preistoriche su roccia in Europa e in Africa, da materiale degli archivi dell'Istituto di Ricerca per la morfologia della Civiltà, Francoforte sul Meno. ( Museum of Modern Art , New York.)



Questo volume, pubblicato in occasione di una mostra, è particolarmente degno di nota.

A parte le numerose riproduzioni che lo illustrano, ripercorre con molti dettagli la storia delle difficoltà incontrate dagli scopritori delle prime pitture rupestri. Quelle che gli "studiosi" hanno persistentemente osteggiato per anni, perché ai loro occhi, non poteva esistere una civiltà, e quindi arte, in un’epoca così lontana: un bell’esempio della forza del pregiudizio!

Il motivo di questo disconoscimento, fondamentalmente è nel fatto che "la mente occidentale è stata permeata dalla convinzione che la cultura del nostro tempo sia la più alta che l'uomo abbia mai raggiunto, che le culture più antiche non potevano in alcun modo essere confrontate con la grandezza dell'esistenza della scienza moderna, e soprattutto tutto ciò che è stato sviluppato, prima dell'inizio della storia non poteva essere considerato che "primitivo" ed insignificante rispetto allo splendore del XIX secolo " .

La situazione non è migliorata molto, questa mentalità non è cambiata molto da allora, anche se in alcuni casi particolari come quello in questione, è stata finalmente costretta a inchinarsi davanti a prove troppo convincenti.
- Qualsiasi questione di discrezione "estetica" a parte, l'interpretazione di questi dipinti, appartenenti a civiltà su cui non ci sono molti altri dati, è naturalmente molto difficile, anche se spesso non del tutto impossibile, là dove un significato rituale è lasciato intuire più o meno completamente.

Notiamo per esempio che una figura trovata nel deserto libico sembri, in modo alquanto sorprendente, una rappresentazione "Tifoniana" dell'antico Egitto, ma per un curioso errore, è stata definita come una "testa del Dio sciacallo ", mentre in realtà rappresenta Anubis e non Set, infatti, è in modo molto evidente," il dio con la testa d’asino" ed è abbastanza interessante trovarne la presenza in epoca preistorica.



(René Guénon, Compte rendu de livre, Etudes Traditionnelles, Octobre 1938)

mercoledì 22 giugno 2011

LA SCIENZA PROPRIA A GESÙ

(al-'Ilm al-'îsawî)
(Futùhât, chap. 20)

Da dove viene e fin dove arriva? Quali sono le sue modalità? Riguarda l’ "altezza" del mondo o la sua "larghezza", o ancora tutte e due allo stesso tempo?

Versi:
La scienza di Aïssà (Gesù) è quella di cui le creature ignorano il valore.
Questa scienza restituisce la vita ad un essere di cui la terra era la tomba.
L'Insufflazione (Nafkh) (con cui vivifica) equivale all'Autorizzazione (Idhn) di Quello che risiede nascosto, ed al Suo Comando creatore (Amr)
In verità, il suo Lâhût, Natura divina che, nell'invisibile, era suo "bel-padre” (çihr),
È un Spirito che ha preso forma sensibile, Rûh mumaththal, e di cui Allah manifestò il segreto.
Quando lui (Gesù), è uscito dal mistero della Dignità divina, mistero di cui Allâh aveva nascosto la piena luce,
È diventato creatura dopo essere stato un puro Spirito (Rûh) ed Allàh Lo illumina, di Santità.
In Lui apparve il Suo Comando (Amr) e Lui soddisfa e dà la gioia.
A chi è come Lui (Aïssâ) Allah renderà un’ immenso ricompensa.

Sappi - e che Allah ti conferma per il Suo aiuto - che lo scienza aïssawie, propria a Gesù, è la scienza delle lettere ('ilm al-Hurûf). È per questa ragione che Aïssâ aveva ricevuto il potere di insufflazione della vita, (an-nafkh) che consiste in quest’ "aria", (hawâ) che esce del fondo del cuore e che è spirito di vita, (rûh al-hayât). Quando il soffio nel suo tragitto espiratorio verso la bocca del corpo, fa delle fermate, i luoghi di queste fermate si chiamano "lettere" (hurûf, sing. harj) e lì sono manifestate le entità proprie alle lettere. Quando queste lettere sono messe in composizione sembrano dare vita sensibile alle idee, (al-ma'ânî) e ciò costituisce la prima cosa che la Dignità divina, al - Hadrah al-ilâhiyyah, manifestò nel mondo.

Le entità essenziali [delle cose] (a'yân) nel loro stato non-esistenziale ('adam) non sono dotate di altri rapporti esistenziali (nisab) dell'udito, (as-sam'); queste entità erano così in loro stesse, nel loro stato non-esistenziale, predisposte a ricevere il Comando divino esistenziatore, quando questo doveva portar loro l'esistenza. Quando dunque Dio dice loro: Sii (Kun)!, si costituirono esistenze in quanto alle loro entità. Così la Parola divina, al-Kalâm al-ilâhî, fu la prima cosa che hanno percepito da parte di Dio - che sia esaltato! - sentendo per ciò un modo di linguaggio attribuibile alla Dignità divina - che sia glorificata!

La prima parola che fu composta è kun = "sia"! che è costituita da una radice di tre lettere: kâf wâw e nûn ; ciascuno dei nomi di queste lettere è, a sua volta, trilittero, apparve così il numero 9 la cui radice (quadrata) è 3, il primo numero dispari - fard . Ora, a causa del 9, tutte le unità numerali procedono loro stesse del verbo kun, e ci fu così una doppia manifestazione: quella delle cose numerate e quella del numero. Da ciò viene anche che le premesse di un sillogismo sono costituite con tre termini - anche se ce ne sono apparentemente quattro, perché, uno dei termini si ripete nelle due premesse, non c'è in realtà che tre. È dal dispari - fard che fu esistenziato l'universo - e non dall’uno (al-wàhid).

Allah ci ha istruiti che la causa della vita nelle forme (şuwar, sing. şûrah) degli esseri generati è solamente l'insufflazione divina, (an-najkh al-ilâhî), dicendo (a proposito di Adamo): E quando l'ebbi formato perfettamente e gli ebbi insufflato il Mio Spirito, (gli Angeli) caddero davanti a lui in prosternazione .

Lo spirito di cui si parla in questo testo è il Soffio, an-Nafas con cui Allah vivifica la Fede e che manifestò. L'inviato di Allah - che Allah gli accorda la grazia e la pace! - ha adoperato questo termine dicendo: Il Soffio del Tutto-misericordioso, Nafas ar-Rahmân, mi viene dal lato dello Yémen . Da questo soffio di misericordia fu ravvivato nei cuori dei credenti la "forma" (sùrah) della fede così come la "forma" delle regole stabilite dalla Legge.

Aïssâ ricevette la scienza del Soffio divino che entra in questa insufflazione e la rispettiva relazione di origine (nishah) , egli dunque soffiava nella "forma" che si trovava in un sepolcro o nella "forma" dell'uccello che aveva fatto lui stesso con l’argilla e l'essere corrispondente alla "forma" in causa si ergeva vivente per l'autorizzazione divina, (al-Idhn al-ilâhî) che entrava in questo insufflazione ed in questa aria. Non era la propagazione (sarayâri) dell'autorizzazione divina nell'insufflazione non ne sarebbe mai risultata la vita in una "forma" qualunque fosse.

È dal Soffio del Tutto-misericordioso che proviene lo scienza aïssawia ad Aïssâ ed egli ravvivava i morti con il suo atto di insufflazione—su di lui il saluto! —ed il soffio si fermava nelle forme in cui era introdotto: è ciò che del resto costituisce il destino che Allah possiede di tutti gli essere esistenti. È per questo stesso destino che l'essere giunto ad Allah quando "tutte le cose arrivano da Lui."

Quando l'uomo, per esempio, durante la sua ascensione spirituale (m'râj), si libera verso il suo Signore, accosta nel suo percorso (attraverso i piani sovrapposti dell'essere) tutto il mondo, prendendo al passaggio ciò che gli è affine in un tale mondo, che non gli resta alla fine che solo il "segreto" (sirr) che ha di Allah, l’unica cosa per la quale possa vederLo e sentire la Sua Parola, perché Allah è troppo sublime e santo per essere afferrato se non per Sé Stesso . Quando questo essere ritorna da questo grado contemplativo (mashhad) la sua forma che era stata decomposta durante la sua esaltazione ('urûj) si ricostituisce e l'universo, ad ogni grado, gli restituisce ciò che gli aveva trattenuto come parte imparentata, al piano di esistenza corrispondente, ogni mondo non supera in nessun modo i limiti del suo genere. Il tutto si riunisce intorno a questo "segreto divino" dunque e si riformi integralmente su lui.

È per questo "segreto" del resto che la "forma" dell'essere canta le lodi del suo Signore, in un altro modo non saprebbe mai farne la vera lode; se la "forma" facesse lode da parte sua e non da parte di questo segreto, non apparirebbero più il favore divino (al-fadl al-ilâhî), né la grazia (al-imtinâri) al riguardo di questa forma stessa; ora è stabilito fermamente che la grazia esiste al riguardo di tutte le creature e ciò vuol dire che è stabilito che ciò che Allah riceve come magnificazione ed elogio da parte della creatura, provenga da questo "segreto divino": è Dio che Si loda e gloria Sé, è il Molto divino che ritorna alla "forma", all'epoca delle sue azioni di lode e di glorificazione, questa "forma" lo riceve a titolo di grazia e non a titolo di diritto di una creatura su Allah; quando Allah ammette che un essere creato abbia un diritto su Lui, lo fa in Sé imponendo Sé Stesso.

Le "parole" (kalimât) provengono dalle "lettere" (hurûf), e le lettere provengono della "aria" (al-hawâ) e l'aria proviene del Soffio rahmaniano. Per i Nomi (al-Asmâ) appaiono gli effetti negli esseri creati ed è lì che finisce la scienza aïssawia.

D’altra parte l'uomo, per la virtù delle parole (venute dunque dal Tutto-Misericordioso), fa quello che la Dignità rahmaniana gli accorda del Suo Soffio, è per questo che si drizzerà la "vita" delle cose chieste per mezzo di queste parole: così l'ordine delle cose è di circolare continuamente, poiché le parole venute dal soffio di grazia tornano alla loro sorgente per riportare ancora grazia.

Sappi che la vita che hanno gli spiriti appartiene a loro per la loro stessa essenza, perché ogni essere vivente è vivente per il suo spirito. Il Samaritano, del popolo di Mosé, conosceva tale realtà; quando vide l'angelo Gabriele, sapendo che lo spirito dell'angelo costituiva tutto il suo essere e che la vita che aveva gli apparteneva anche per il suo essere, sapeva anche che ogni luogo calcato da lui, a causa della sua condizione di "rappresentazione sensibile" (itamthîl) , diventava "vivente" in virtù del contatto con questa forma sensibile, (as-şûrah al-mumaththalah) prese dalle tracce dell'angelo un "pugno" di polvere secondo ciò che Allah ha notificato riportando le parole del Samaritano: Ed io ha preso un pugno delle tracce dell'inviato, celeste . Quando il Vitello fu costituito e fu formato, il Samaritano gettò su lui di questo pugno ed il Vitello, animato, muggì. Aïssâ - su lui il Saluto! - essendo "Spirito" (Rûh) come l'ha chiamato -ed Allah lo costituì Spirito nella forma stabile di un essere umano, come costituì Gabriele nella forma passeggera di un beduino- risuscitava i morti con la semplice insufflazione. Avendolo poi, Allah, confermato con lo spirito della Santità (Rûh al-Quds) fu così Spirito confermato da uno Spirito che era puro della sozzura propria agli esseri cosmici.

Il principio di Tutto è l’essere Vivente di tutta l’Eternità (al-Hayy al-Azali) che è identico alla vita senza fine; la distinzione tra eternità senza principio (azal) ed eternità senza fine (abad) è introdotta solamente dall'esistenza del mondo e dal suo carattere avventizio.

Questa Scienza è quella che si ricollega alla "altezza" (tût) ed alla "larghezza" ('ard) del mondo, intendendo con questo, da una parte, il mondo spirituale (al-'âlam ar-rûhânî) che è quello delle Idee pure (al-Ma'ânî) e del Comando divino (al-Amr) e, d’altra parte il mondo creato ('âlam al-khalaq) dalla natura grossolana (at-tabî'ah) e dei corpi (al-ajsâm), il tutto appartiene ad Allah: La Creazione ed il Comando non sono i Suoi? . Di': Lo spirito fa parte del Comando del mio Signore! . Benedetto o Allah, il Signore dei Mondi! . Questa era la scienza di Al-Hussayn ibn Mansoûr Al-Hallâj che Allah gli faccia misericordia! - Quando sentirai qualcuno delle persone della nostra Via trattare delle Lettere (Hurûf) e dire che tale "lettera" ha tante braccia o spanne di "altezza" e tante in "larghezza", come hanno fatto Al-Hallâj e altri, sappi che con "altezza" intendono dire la sua virtù operativa (fi'l) nel mondo degli spiriti, e con "larghezza" la sua forza operativa nel mondo dei corpi: la misura menzionata allora ne è la caratteristica distintiva. Questa terminologia tecnica è stata istituita da Al-Hallâj.

Quelli tra i Realizzati Certificati, (al-Mu haqqiqûri) che conoscono la realtà del Kun possiedono la Scienza di Gesù, (al-'Ilm al-'îssawt) e quelli che esistenziano per la virtù della loro energia spirituale (himmah) qualche essere (kâ'inât) lo fanno solamente in virtù di questa Scienza .
* * *
Il 9 appare con la realtà di queste tre lettere (del Kun), e con quel numero apparvero tra le cose numerate (o nominate), i 9 Cieli e, per i movimenti dell'insieme dei 9 Cieli ed il corso dei pianeti, fu generato il Basso-mondo (ad-Dunyâ) con ciò che contiene; così, per i loro movimenti, questo mondo con ciò che contiene sarà distrutto. Per il movimento della sfera più alta tra le 9 fu esistenziato il Paradiso con ciò che comporta. Tutto come all'epoca del movimento di questa sfera più alta è prodotto da ciò che c'è nel Paradiso, dal movimento della seconda sfera che segue la più alta è prodotto il Fuoco, è con questo che si trova, sia la Risurrezione che l'Uscita dalle tombe, l'Assembramento e lo Spiegamento. A causa di ciò che abbiamo menzionato, il Basso-mondo è mescolato: la delizia mescolata col castigo. A causa di ciò che abbiamo menzionato rispettivamente, il Paradiso è tutto intera delizia ed il Fuoco ogni intero castigo.

La mescolanza della composizione attuale cesserà per gli esseri (uscendo da questo mondo per la vita futura) perché la condizione di esistenza della vita futura non ammette la complessità che hanno gli esseri quaggiù: è la grande differenza tra la vita di questa Basso-mondo e la Vita futura, tranne per quel che concerne la costituzione naturale (nash 'ah) della gente del Fuoco, - quando la Collera divina è finita, il suo limite essendo stato raggiunto in ciò che li riguarda, questa Collera è seguita dalla Misericordia, la quale aveva preceduto la collera nel tempo - l'autorità della Misericordia si impone di nuovo al loro riguardo, la loro forma (şurah) essendo rimasta la stessa senza cambiamento. Del resto, se la forma della Misericordia fosse cambiata sarebbero sottomessi al castigo. - Così, questi esseri sono retti inizialmente, dal permesso di Allah ed investiti da parte Sua, per il movimento della seconda sfera celeste, quella che segue la più alta, e che produce un castigo destinato ad ogni ricettacolo disposto al castigo al loro riguardo - e se diciamo "ad ogni ricettacolo disposto al castigo», Quando sarà consumata il periodo (del Fuoco) che è di 45.000 anni, ci sarà stato castigo (effettivo) per tutto quel periodo per le sue persone (ecco come): questi sono puniti, innanzitutto, con un castigo continuo, senza interruzione, per 23.000 anni.

Poi il Tutto-misericordioso (ar-Rahmân) manda loro un sonno (nawmah) durante il quale perdono ogni sensibilità, ciò corrisponde alla parola di Allah: Non vive né non muore , così come alla parola dell'inviato di Allah - su lui il saluto! - a proposito delle persone del Fuoco, destinati al Fuoco: Non muoiono né vivono ciò riguarda lo stato di questi esseri durante le epoche dove perdono la loro sensibilità. Questo stato è analogo a quello delle persone castigate in questo Basso-mondo che svengono a causa della violenza dello spavento o della forza eccezionale del dolore. Le persone del Fuoco restano in questo stato (di sonno) per 19.000 anni, poi si svegliano dal loro svenimento (ghashvah) - ora, avendo Allah sostituito le loro pelli con altri pelli , sono puniti in queste nuove pelli per 15.000 anni; cadono poi di nuovo in svenimento e restano così per 11.000 anni; si svegliano poi di nuovo mentre Allah ha sostituito ancora le loro pelli con altre affinché possano apprezzare di nuovo il castigo e, fatto questo, apprezzano di nuovo il castigo doloroso durante 7.000 anni; poi ricadono in svenimento per 3.000 anni; poi si svegliano ed Allah accorda loro un diletto (ladhdhah) ed un riposo (râhah), analoghi a quelli che prova l'uomo che si addormenta stanco e che si sveglia, riposato .

Questo proviene dalla "misericordia divina che prevale sulla Sua Collera" e che si distende (wasi 'at) ad ogni cosa." La Misericordia esercita allora il suo potere di perpetuazione che deriva del nome divino Al-Wâsi': "Quello che si distende e contiene vastamente" per cui Allah si distende ad ogni cosa l'avvolgendola con la (Sua) misericordia e con la (Sua) scienza . Allora gli esseri non sentono più di dolore e come questo stato si perpetua per loro, che lo trovano piacevole , dicono: "Siamo stati dimenticati e non chiediamo niente, per paura di ricordare il ricordo del nostro caso, mentre Allah ci ha detto: "Rimanete e non mi parlate! ."

È così che tacciono, e si tengono avvolti in un velo; non resta loro del castigo che la paura di un ritorno del ca-stigo; è questa porzione di castigo che è perpetuata in essi, la paura che è un castigo psichico non sensoriale, ma può arrivare che in certi momenti dimentichino la paura stessa. La loro felicità consiste nella tranquillità dal lato del castigo sensoriale, e ciò viene da quel che mette Allah, nei loro cuori, in quanto possiede una vasta misericordia. Difatti, Allah dice: Oggi vi dimentichiamo, siccome avete dimenticato... È di questo fatto che ci dicono "sono stati dimenticati" (nusînâ) quando non sentono più i dolori. A ciò si riferiscono anche le parole dimenticarono Allah e li ha dimenticati e: parimenti oggi tu sarai dimenticato , questo significa "sei abbandonato nella Geenna", perché il nisyân è "oblio", l’"abbandono"; se, la radice adoperata in tutte le parole tradotte qui con l'idea di "oblio" è considerata avere come terzo radicale, l’hamza, e non lo yâ il suo senso è "a scoppio ritardato."

La parte di felicità che hanno le persone del Fuoco è l'assenza di castigo, e la loro parte di castigo è l'arrivo del castigo in sé, perché non hanno nessuna sicurezza per via di notificazione del lato di Allâh. Sono protetti tut-tavia in certi momenti, contro la paura dell'arrivo del castigo. Così una volta ne sono protetti per 10.000 anni, un'altra volta per 2.000 anni, poi ancora per 6.000 anni, ma non escono da questi limiti, perché occorre che tra-scorrano un tale tempo determinato.

Infine quando Allah vuole accordar loro un favore dal suo nome Ar-Rahmân, considerano lo stato in cui si tro-vano allora e la loro uscita dal castigo in cui erano stati immersi ed essi sono favoriti finché dura questo sguar-do; ora ciò può durare 1 una volta.000 anni, un'altra volta 9.000 anni, un'altra volta 5.000 anni, ciò può durare ancora oltre o meno. Tale è la situazione di questi esseri nella Geenna, restandoci continuamente, perché ne sono gli abitanti abituali.

Ciò che abbiamo appena menzionato in questo capitolo proviene dallo scienza aïssawia ereditata dal Maqâm Muhammadiano. Ed Allah dice la verità, ed Egli guida sulla Via

martedì 19 aprile 2011

INTRODUZIONE ALLA PRESENTAZIONE E ALLA TRADUZIONE DELLE FUTUHAT AL-MAKKIYYAH.

Michel Vâlsan



Lo Sceicco al-Akbar Muhyu-d-Dîn Ibn ‘Arabî, nato nel 560/1165 a Murcia (Spagna)e morto nel 638/1240 a Damasco, è l'autore più importante del Tasawwuf e uno di più abbondanti di tutta la letteratura araba.

I suoi scritti si catalogano in centinaia e certi raggiungono delle dimensioni imponenti. Un Ijâzah(licence di insegnamento, conferitagli dal Sultano Al-Muzhaffar Bahâ'u-d-Dîn al-Ayyûbî, nel 632/1234, dunque sei anni prima della sua morte, porta un elenco di 290 titoli (1), e l'autore dice che "ha fatto menzione solamente di quelli di cui si è potuto ricordare, perché ce ne è un grande numero: dai più brevi, della dimensione di un quaderno, ai più voluminosi che superano i cento tomi. " Alcuni autori hanno stimato che i suoi lavori sarebbero dell'ordine tra i 400 ai 500 titoli; si è parlato anche, probabilmente per iperbole, di 1 000 lavori.

In effetti, secondo l'inventario di Brockelmann, basato sui cataloghi delle biblioteche pubbliche e le edizioni stampate, si attesterebbe, ad oggi,l'esistenza di 239 lavori, cifra che bisogna ancora ridurre a causa di doppi titoli ripresi separatamente per un stesso lavoro o di erronee attribuzione allo Sceicco al-Akbar, di lavori che appartengono ad altri autori. Lasceremo volentieri ad altri il compito di determinare l'elenco dei lavori scritti dallo Sceicco al-Akbar, e di stabilire l'inventario di quelli attestati nei manoscritti conosciuti o nelle edizioni fatte fino qui. Ciò che è già evidente, sono l'immensità e la varietà di questa opera che, in paragone coi lavori di altri autori del Tasawwuf, è studiata insufficientemente fino qui del fa anche nelle sue dimensioni (2). Ora, ciò che domina in questa opera, sono les Futûhât, lavoro enciclopedico costituente la sintesi dell'insegnamento dello Sceicco al-Akbar, consistendo in 560 capitoli di superficie molto varia, tra cui alcuni hanno le proporzioni di un grande volume. Nell’edizione delDâru-l-Kutubi-l-‘Arabiyyati-l-Kubr(Il Cairo 1329/1910), le Futûhât sono ripartite in quattro grossi volumi con i seguenti numeri di pagine: 763 + 804 + 567 + 571 = 2705 pagine, formato A4(3) . Questo equivale all’estensione di 300 trattati ordinari dello stesso autore, perché la maggior parte di questi sono in una dimensione di otto pagine stampate in A4, o venti pagine di un'edizione in-8° scritta serrata (4) . Questo per dire che si ha in questi volumi altrettanta materia che negli altri scritti dello stesso autore attestati esistenti oggi nei manoscritti (5) o stampati.

Questa importanza risulterà ancora meglio se si tiene conto che molto dei piccoli o dei grandi trattati sono stati ripresi dall'autore, parzialmente o integralmente, nella cornice delle Futûhât durante la redazione, che si prolunga per più di trent' anni della seconda metà della vita dello Sceicco al-Akbar (6), assorbendo progressivamente gli elementi degli scritti paralleli. A parte questo, negli altri trattati si trovano numerosi rinvii alle Futûhât, così che gli altri scritti sembrano essere gli allegati naturali di quest’opera capitale e sintetica dell'insegnamento spirituale dell'islam.

La ricchezza e la varietà di contenuto delle Futûhât è senza uguale: si trova delle esposizioni di dottrine metafisiche, teologiche e giurisprudenziali, di cosmogonia e di cosmologia, sulla Scienza delle Lettere, sulla costituzione dell'essere umano, un escatologia molto evoluta, lo studio dei riti istituiti, delle pratiche e delle tecniche spirituali, degli "stati" (ahwâl), delle "dimore”(manâzil), delle "degnazioni" (munâzalât), delle "stazioni" (maqamât), delle tipologie spirituali profetiche, le categorie e le funzioni esoteriche, delle considerazioni cicliche ed apocalittiche. Alcuni di questi punti sono eccezionalmente sviluppati, come le parti sui gradi del Soffio Rahmânien, i Nomi divini, i mezzi incantatori (hajîrât), i Poli, ecc.
Non c'è quasi punto dell'insegnamento tradizionale islamico, tanto exoterico che esoterico che non abbia trovato un posto in questa "Summa", e tuttavia le Futûhât sono tutt’altro che un lavoro didattico o una compilazione. Tutto è profondo e sapiente, ma tutto è basato "sulla conoscenza intuitiva e diretta" dell'autore, bi al-kashf, come afferma lui stesso, aggiungendo che non si riferisce a ciò per attestare il suo merito ma per ciò che altri potrebbero dire sugli argomenti di cui parla. Per le cose "inedite" che rivela di abitudine, non manca di sottolineare che è il primo a parlarne. In tutti i campi e su tutte le materie, lo Sceicco al-Akbar esercita così un controllo sull'insegnamento dei suoi predecessori che conferma o rettifica, ma che illumina sempre di una luce nuova.
Appare così come lo studio dell’opera dello Sceicco al-Akbar debba essere centrato su quella delle Futûhât. Ora, considerando la ricchezza e la superficie di quest’opera stessa, è necessario cominciare da un studio dei suoi testi preliminari, del piano delle sue materie e della sua struttura generale. Un tale lavoro comporta una traduzione di certi testi e della Tavola dei Capitoli. Stiamo realizzando questo lavoro introduttivo allo studio dei Futûhât e nello stesso tempo all'insieme del opere dello Sceicco al-Akbar.

1-[l'Ijâzaha è stato pubblicato da Badawî con il titolo: Autobibliografía di Ibn ‘Arabî (Al-Andalus, Vol. 20, Fasc. 1, pp. 107-128, Madrid-Granada, 1955. L'altro "autobibliographie", il Fihris, è stato pubblicato da Korkis ‘Awwâd, Rivista dell'accademia araba di Damasco, n° 3-4, 1954; n° 1 di 1955 e supplemento n° 2-3, 1955, e per ‘Afîfî, Rivista del Facoltà di Lettere dell'università di Alessandria, 1954, VIII). Queste edizioni sono stabilite sui manoscritti originali o più vecchi, e si noterà, d’altra parte, che il numero di lavori menzionati varia considerevolmente secondo i documenti consultati.]


2-[nel 1964, Osman Yahia ha censito 846 scritti attribuiti allo Sceicco al-Akbar sotto 1590 titoli, Storia e classificazione del Opere di Ibn ‘Arabî, pp. 547-600; certi di questi scritti sono dubbi o apocrifi, ibid., pp. 74-75.]

3-per dare un'idea di ciò che ciò costituisce, diremo che se si conta quattro pagine di testo francese in-8° per una pagina dell'arabo in-4°, la traduzione dell'insieme delle Futûhât si distenderebbe su più di 10 000 pagine! [L'edizione critica di Osman Yahia conta 14 volumi (1972-1991); ma si ferma al capitolo 161 compreso. Un'edizione completa in otto volumi è stata pubblicata a Beirut nel 1994.]

4-Cf. la recente edizione di Hyderabad (Decan, 1948 che presenta, in due volumi in-8°, 29 questi trattati di dimensioni ordinarie, vanno dalle 7 alle 92 pagine con una composizione molto distanziata negli anni [oramai riuniti in un volume sotto il titolo Rasâ'il].

5-parliamo di quelli che sono attestati secondo i cataloghi delle biblioteche pubbliche. Molto lavori che raffigurano nell'Ijâzahou negli elenchi dei bibliografi orientali e di cui non sono attestati manoscritti, devono trovarsi nelle biblioteche private o nella mano degli uomini della Via, soprattutto quando si tratta di trattati "riservati" per certi categorie iniziatiche.

6-esattamente dal 598/1201 fino in 629/1231, ma un secondo esemplare scritto a mano dall'autore fu finito nel 636, due anni prima della sua morte, e come dice lui stesso nelle ultime righe, "questa nuova copia autografa contiene delle aggiunte rispetto alla prima. "




domenica 17 aprile 2011

LA GHIRLANDA DELLE LETTERE

A. Avalon

CAPITOLO I - VAK O LA PAROLA



La parola vak (in Latino Vox) deriva dalla radice Vach che significa“Parlare”. Il nome femminile Vak pertanto significa letteralmente sia voce sia suono, anche nel caso in cui il suono sia un rumore emesso da oggetti inanimati. Ha perciò lo stesso significato dell'altro termine utilizzato in sanscrito per indicare un suono: Shabda. Quest'ultimo termine spesso è usato in correlazione alla parola Artha che è l’oggetto indicato dal suono, mentre Pratyaya è l'apprendimento mentale che avviene tutte le volte in cui la mente ritiene l’immagine di un oggetto (fisico o psichico) e l'associa ad un determinato suono o parola.

SHABDA = SUONO
ARTHA = OGGETTO
PRATYAYA = ASSOCIAZIONE MENTALE TRA UN DETERMINATO SUONO O PAROLA ED UN OGGETTO.

Tutto questo succede sempre su tre diversi livelli di profondità:

PARA = SUPREMO O CAUSALE. COMPRENSIBILE ALLA MENTE COME "VOLONTÀ DIVINA",
SUKSHMA = SOTTILE, RELATIVO ALLO STATO DI SOGNO O AL PIANO MENTALE DEL SINGOLO INDIVIDUO.
STHULA= GROSSOLANO. IL MONDO FISICO DEGLI OGGETTI E DEI SUONI MATERIALI.

Nei testi, quando ci si riferisce a

1. Para-Vak s'intende quello Stress Causale (Causa Prima) che, in termini di Pratyaya, è l'ideazione cosmica, l'immaginazione creativa o manifestazione d'Ishwara: questa è la “parola divina”. E' "Vak".

Vak è anche un effetto, sottile o grossolano:

2. Pashyanti-Vak è Vak che si produce come Ikshana (Colei che vede), e si manifesta, come sukshma (sottile)

3. Madhyama-Vak, o shabda di Hiranya-garbha, sono le matrika dello shabda come esistono nell’uomo prima della loro manifestazione grossolana come lettere (varna)

4. Vaikhari-Vak è il discorso parlato.

Nel Rgveda, Sarasvati (V. 43 II) è chiamata Paviravi o figlia del Lampo, ossia, “del grande Vajra, colui che sostiene i mondi”. Il discorso parlato è manifestato nel mondo della materia dal suono fisico o Dhvani prodotto dagli organi vocali sull'aria circostante dallo sforzo del parlare.

Nel Brahman trascendente ed inerte (Paramātma) o Paramashiva non ci sono né Shabda, né Artha e nemmeno Pratyaya, di conseguenza che non ci si trovano né nome (Nama) né forma (Rupa). In questa Calma Infinita sorge quel “punto di stress metafisico” detto Bindu o Ghanibhuta Shakti che si produrrà come le forze multiple dell'universo. questa “energizzazione” è la causa degli Jivatma (degli io che vivono l'illusione della separazione) e, per i Jivatma, è l'esperienza del mondo nella sua dualità di soggetto ed oggetto. Questo è il “Gioco” di Shakti nell'Etere di Coscienza, in questo modo ciò che è Trascendente ed Immanente sembra come cancellato quando la seconda condizione appare. Questa è la creazione (Srishti) o, più propriamente l'apparente sviluppo della manifestazione.

Per definire "Shristi", si usa la locuzione "creazione del o dei, mondo/i operata dal brahman". Frase che non esprime pienamente questo processo. La creazione, nel senso cristiano esclude la nozione che Dio sia una causa materiale, essendo il “creato” uscito fuori da una preesistente materia amorfa, non fuori dalla sostanza divina. La creazione coinvolge anche un aspetto d'assoluta novità (prima non esisteva nulla al di fuori di Dio). La parola "creazione" si usa solitamente con queste riserve. L'Atman, nella forma di questo potere (Shakti), sviluppa la sua potenzialità (Prasarati). Questa Srishti sopporta un tempo (Sthiti) che è detto giorno di Brahmā dopo di questo c'è, secondo alcuni, un completo Riassorbimento nel Sé della manifestazione (Mahapralaya): così com'è cominciata, dovrà finire.

Altri affermano che non ci sia un tale Mahapralaya, che qualche universo sia sempre esistito, sebbene un mondo od un altro possano essere scomparsi. Durante il momento in cui è in atto questo Riassorbimento il secondo stato, quello dello sviluppo della manifestazione, sarebbe contenuto in potenza nell'indifferenziata e non manifestata Maya Shakti.

Lo Shabda-Brahman è il giubilo della felicità di Shiva. Prorompe come se già fosse nell'eterna Calma sempre-esistente, come il rumore delle onde sul calmo bacino dell’oceano, o come lo spruzzo di una fontana che cade di nuovo nelle acque da cui proviene. Questo concetto della "parola divina" è molto antico. Nella Bibbia Dio "parla" ( Fiat Lux) e grazie alla sua Parola la “Cosa” appare. Così la parola israelitica per Luce è " Aur”. La Genesi dice: ”Dio disse: Sia la luce (Aur) e Luce(Aur) fu. La Parola Divina è concepita nelle Sacre scritture degli Ebrei come un potere creativo.

Una fase di pensiero più vicina a noi mostra un aspetto del Sé Supremo quale Persona che crea. Così noi abbiamo il Sé Supremo ed il Logos: Brahman e Shabda-Brahman. In greco, Logos vuole dire il pensiero e la parola che denota l'oggetto di pensiero (come il termine Aparashabda). Per Eraclito, Logos era il Principio a cui è sottoposto l'universo . Per gli Stoici era l’anima del Mondo: il principio che unisce tutte le forze razionali che lavorano nel mondo. Secondo Platone, il Logos era l’immagine primitiva e super-sensoriale o modello, delle cose visibili. Filone Alessandrino, influenzato dal Platonismo e dalle altre filosofie elleniche, combinò tra loro queste due concezioni. Lesse nel Vecchio Testamento e nella Teologia ebrea di un Essere intermediario fra il Dio Creatore e l'universo molteplice. Questo intermediario era il Logos.

Secondo Filone, le Idee plasmarono la Materia. Dio produsse prima il mondo intelligibile delle Idee che erano “modelli” del mondo fisico. Benché in se stesso non fosse nulla, il Logos fu l'autore del mondo ideale. Nel modo in cui un architetto progetta nella sua mente il piano di una città e così produce la vera città secondo l'ideale, così Dio agì quando creò il mondo attuando questa Megalopoli.

L'Autore del quarto Vangelo adottò queste idee dandogli però espressione in modo di rendere servizio alle necessità teologiche cristiane. E’ stato affermato che l'adozione di questa nozione nel testo di S. Giovanni non era una mera copia, ma un libero adattamento ed una Cristianizzazione dei Logotipi di Filone. Secondo l'Evangelista, il Logos è una Persona che era di fronte alla creazione ed, egli stesso, Dio. È la Potenza della Saggezza Esterna che procede dalla Divinità non manifestata per lo scopo dell'attività del mondo e nel mondo, è il Logos Endiathetos o la saggezza divina ed immanente. Il Logos, attraverso il quale fu creato il mondo, divenne carne (Avatara), fu manifestato come uomo (Verbum caro factum est). Lui è il Figlio che è Gesù Cristo, colui che nella pre-esistenza paradisiaca era stato chiamato il Logos e che, dopo la Sua incarnazione come uomo, Gesù. Il Cristo, che non era né profeta né superuomo ma Purnavatara di Dio.

Il Logos è la rappresentazione perfetta di Dio nel Figlio. In Gesù c'era identità di essere con Dio. Il quarto Vangelo apre in modo imponente, "all'inizio era la Parola, e la Parola era con Dio, e la Parola era Dio". Queste stesse parole sono dette nei Veda: «All'inizio c'era il Brahman, con Lui c'era Vak o la Parola».

Questa viene descritta come se fosse un secondo Ente, perché ella esiste solo potenzialmente nel Brahman incondizionato, da cui viene "emessa" o determinata come Shakti: "e la Parola è Brahman".

Vak è così una Shakti o il Potere del Brahman che è uno col possessore del Potere (Shaktiman). Questa Shakti che era in Lui alla creazione, è sempre con Lui, si evolve nella forma dell'Universo pur restando inalterata come Shakti Suprema. È sempre possibile che il pensiero umano possa svilupparsi indipendentemente in modi molto simili. Non è nemmeno del tutto improbabile un'influenza dell'India sul mondo occidentale, tale che i seguaci di Filone ed i Neo-platonici e le stesse concezioni di San Giovanni fossero, almeno in parte, indebitate con un'origine indiana, ma nonostante ci siano punti generali di somiglianza, ce ne sono altri di differenza per i quali l'accuratezza esige attenzione. Così il Brahman è la causa di materiale del mondo, mentre il Logos cristiano no. Per il Cristianesimo sarebbe un dualismo. Vak non è una Persona della Trinità . Vak stessa è la Madre della Trimurthi che è Brahma, Visnù e Rudra. Perchè Lei è la Shakti Suprema, una cosa sola con il Brahman, unca ed indistinguibile. La piena incarnazione è un concetto dell'Induismo, ma nella forma di Jiva, Vak non è solamente l'incarnazione di una persona storica ma di tutti gli uomini, esseri e cose. La Parola come Vak divenne carne, non in una particolare data od in un particolare luogo o persona storica. Apparve ed ora appare nella carne e nelle altre forme di materia ed in tutti gli esseri limitati o Jiva, ognuno dei quali può direttamente, attraverso i Veda realizzare direttamente il Brahman, che è Shakti , che è la parola di Vak. Nel Cristianesimo, solo Gesù era Dio in forma umana. Gli altri non lo erano, non lo sono e mai non potranno diventare Dio. Vak manifesta se stessa – che è il Brahman, in quell'esperienza spirituale che è il Veda. L'universo è la conseguenza del Desiderio Divino (Kama = amore) o della Volontà (Iccha). Kama sul piano fisico denota fra le altre cose, il desiderio sessuale: nel senso più alto è il primo impulso creativo dell'Uno nel voler diventare molti, in questo modo si moltiplica in tutte le creature. Desiderio terreno ed impulso di riproduzione sono però solo manifestazioni limitate di quell'impulso primario. La Volontà divina lavora continuamente ed in ogni momento attraverso il desiderio sessuale ed individuale per mantenere stabile la creazione dell'universo. Il Kama divino è eterno ed è l'origine di tutte le cose. Così Parmenide che parla d'Eros o Amore, disse: "Prōtision mĕn ěrota theūn nětīsato panton". (Lui concepì Eros, il primo di tutti i Dei). Questo è l'Eros divino attraverso il quale le cose sono in divenire; (Platone Symp. 5-6). La Figlia di Kama è Vak. Costei, come Volontà divina, parla la Parola Divina, grazie alla quale l'universo esiste. Nell'Atharvaveda (IX-2) Kama è celebrato come un grande Potere, superiore a tutti i Deva. La Figlia di Kama è chiamata “La Vacca che i saggi chiamano Vak-virat, ” questa è Vak nella forma dell'universo. All’inizio c'era il Brahman e con Lui era Vak. Nel Veda è detto: - questo Essere (Prajapati) disse volendolo “Possa io essere molti. Possa io essere propagato.” Così stimolò la sua energia: Vak, Lei fu prodotta da Lui e pervase tutto ciò che esiste.". Sempre riguardo a Vak è detto: - Nella sua mente, lui (Prajapati) si unì con Vak che così divenne incinta. Nel Kathaka è scritto: " A quel tempo esisteva solo Prajapati. Vak era un secondo se stesso. Lui si unì con Lei e Lei divenne incinta. Lei divenne “altro” da Lui e produsse tutte le creature per poi rientrare nuovamente in Lui " Di nuovo nel Panchavimsha Br. (XX-I4-2) è detto similmente: “Prajapati era solo in questo universo. Vak era con lui come un secondo se stesso. Cosi egli pensò, ora manifesto Vak e lei animerà tutte le cose pervadendole”. Così il Brahman o Shiva volle essere molti e la sua Shakti che era uno con Lui, fu emessa come sua prima Parola.

L'Unione del Volere e della Parola era la potenza della creazione, tutte le cose erano presenti nell’indifferenziata massa del Grande Utero (Mahayoni) della Madre di tutti (Ambika). Questa Potenza divenne attuale, quando l'universo fu manifestato, ed alla sua dissoluzione Shakti, come tutto l’universo rientra nel Brahman e rimane uno con Lui (Chit) come Chidrùpini. Nel frattempo Lei pervade, come Spirito immanente, la mente e la materia che sono le Sue forme temporali. Nella Brihadaranyaka Upanishad (pp. 50-53, ed. Roer) è scritto: " Da Vak e Atma furono create tutte le cose, i Veda, i metri poetici, i Sacrifici e tutte le Creature.” Prima fu prodotta la scienza sacra Vaidika. Nel Mahabharata Sarasvati come Vak è chiamata la "Madre del Veda" e lo stesso è detto di Vak nel Taittiriya Brahmana (II. 8-8-5) dove (e nel precedente paragrafo 4) si dice anche che lei contenga, nel suo interno, tutti i mondi e che sia stata invocata con Tapas (sforzo ardente, purificazione, austerità, sacrificio) dai Rishi che composero gli Inni Vedici.

Nel Bhishmaparva del Mahabharata si afferma che Achyuta (Krishna), abbia prodotto Sarasvati ed i Veda nella Sua mente, e nel Vanaparva Gayatri è chiamata la Madre del Veda, Gayatri Devi è una forma di Vak. Vak è la Madre del Veda e di tutte le cose fatte conoscere con le loro parole. Vak, nella forma di Veda, è Vedatmika VakVak è la sostanza del mondo intero; poiché esisteva prima del mondo ed è Shabdaprabhava = anteriore all'esistenza dei Veda. Nel Rig -Veda è scritto: "Io (Vak) ho creato l’uomo, io amo eccedere possente e fare di lui il Brahman, un Rishi, un Saggio - " Questa è Vak, l’iniziatrice dei Rishi, fatto che è noto agli uomini. " Col sacrificio loro seguirono il patto di Vak e la trovarono entrando nella via dei Rishi”.I Rishi chiamarono i loro Inni in vari modi; fra altri anche col nome di Vak. Tutti però sono per loro una manifestazione di Vak. Vak è una cosa sola con il Brahman, con Shiva e con Shakti. Nella Brihadaranyaka Upanishad è detto: “ Il brahman è conosciuto da Vak. Vak è il supremo Brahman”. Nel Mahabarata è scritto: ”Guarda la madre Sarasvati dei Veda che mi sopporta. Lei questa grande Shakti, è una con Mahesvara. Così nel Mangalacharana, Sayana e Madhava premisero ai loro commenti alla Rik Samhitā e Taittirìya Samhitā : “Io riverisco Mahesvara la Sacra dimora della Conoscenza, i Veda sono il suo respiro, dal Veda si formò l'universo intero". Il Taittirìya Brahmana recita: Vak è imperitura, è la prima nata di Rita (ordine celeste dell cose), madre dei Veda ed è il punto centrale dell'immortalità. Dice il Sathapatha Brahmana: “Vak è non nata.”. E’ da Vak che il creatore dell'universo (Vishvakarma) produsse tutte le creature.Diversi testi associano Vak come sua shakti, al Deva delle creature (Prajapati), chiamato Pashupati nello Shaiva Shastra. Shamkarachariya cita "Nella Sua mente Lui si unì con Vak.". Così in questo sutra, ed in molti altri versi ancora, il Veda dichiara che quella creazione fu preceduta dalla Parola, dalla quale è prodotto l'universo intero dei Deva e la vita sulla terra: organica ed inorganica. Se però si sostiene che il mondo fu prodotto dal Brahman, come si può sostenere che sia stato prodotto dalla Parola?

La creazione fu preceduta dalla Parola. Così Shamkarachariya insegna che, quando un uomo vuole realizzare un suo proposito, prima chiama alla mente il significato della parola che esprime la sua idea, poi procede nell’effettuare il suo scopo. Questa analogia per spiegare come le parole dei Veda, prima manifestarono nella mente divina e poi crearono gli oggetti quali loro risultato. Così il testo Vedico dice " Emettendo Bhùh (la terra) lui creò la terra (Bhùmi) " e così via. Questo significa che tutti i mondi e gli esseri che li popolano furono manifestati o creati dalla parola " Bhùh " in precedenza pensata nella Sua mente. Tutte le distinzioni di “prima” e "dopo" sono dette Vyavaharika. Le analogie umane sono necessariamente imperfette.

In Ishwara, inteso come Ente Causale, è presente un unico principio che, quando sarà manifestato darà luogo a Shabda, Artha e Pratyaya e che perciò li coordina. Per gli scopi dell'esposizione, noi possiamo affermare che lo Srishti-kalpana (ideazione mentale = logos) d’Ishwara è solo una frazione del Pratyaya (apprendimento mentale, associazione parola oggetto, generalmente tradotto con il termine “Causa”.) che Lui (Shiva o il Brahman) ha del suo Anandamaya o corpo causale, e interiore. Frazione che include i corpi sottili e grossolani. Il Parashabda (suono causale) di Ishwara ha come effetto ogni Aparashabda (suono non causale, causato), ed il Suo Artha è l’azione Causale che da inizio allo sviluppo di Prakriti Shakti e che è esperimentato in tutti gli elementi (Vikriti) e nelle cose che sono combinate da questi.- Ishwara ha un apprendimento diretto ed immediato dei tre livelli di esperienza:

1. manifestazione causale od informale

2. manifestazione formale sottile

3. manifestazione formale grossolana

Para Vak è perciò quello che, prima è stato definito come Parashabda, mentre

Vak (semplicemente) è

1- lo Shabda sia nello stato sottile come Matrika (Madhyama Vak)

2- lo Shabda nello stato grossolano come suono fisico (Vaikhari Vak).

Vaikhari Vak è la forma più grossolana di Vak, quella delle lettere parlate (Varna) con cui si pronunciano i Mantra.

Perché l'uomo, unico tra tutti gli animali, può parlare? Cos'è che causa la parola o il discorso e che spinge a conoscere tutte le cose nell'universo. Altrimenti, cos'è che sprona all'apprendimento mentale (Pratyaya)? Quest'ultimo letteralmente significa “andare verso”o sviluppare l'oggetto della mente. Quella causa è la Devi Sarasvati suprema, la Madre dei Veda e dei Mondi. E’ Lei che si manifesta come nome (Nama) e forma (Rupa): è l'universo, composto dal nome e dalla forma. Lei è così: la Shakti Suprema, è difficile darle un titolo, qualsiasi cosa si possa dire di lei è presa in ogni modo da una delle sue produzioni, così come ogni parola che manifesta un discorso. Lo strumento musicale (Vina), attributo di Sarasvati, denota tutti i suoni (Shabda) di cui Lei è la Madre. Bianchi sono i suoi indumenti e la bianchezza trasparente è il colore dell’Akasha (etere) e della Buddhi. Il suo nome denota “il flusso” o “il moto” (Saras). Lei è così, suprema, perché è l'attività (Shakti) dell'immobile Shiva o Brahman. E' l'unica mattatrice del mondo manifestato dalla Shakti dinamica, è dentro ed attorno al rigido Etere che apparve alla creazione col suono che ruggisce “Hang”. E' Lei che tutto sostiene in un insieme solido e ordinato e che muove l'universo intero con il suo fluire.

Secondo la scienza, l’Etere non ha le imperfezioni che noi attribuiamo alla materia È proprietà di quest’ultima quella di diventare vecchia, decadere, finire. L'energia come esiste nell'Etere rimane immutata. È l'inalterabile ed immobile Etere imperituro che è Vajra: duro, stabile, perpetuo, inalterabile. Vajra è la manifestazione statica del Brahman inalterato, in cui il Brahman dinamico, come flusso di Sarasvati scorre e si muove. All’inizio fu lo Shunya, spazio vuoto dove ogni movimento si acquieta. Come nel Bramanesimo il concetto d’Akasha è trasferito all'idea del Brahman come Chid-akasha. Così l’etereo Shunya nel monismo buddista settentrionale è considerato come sTongpa-nyid (Shunyata) lo stadio precedente l'Ultimo, oltre tutte le categorie.

Sarasvati è il brahman dinamico. Lei ed il suo “consorte”, il brahman statico o Brahma, nascono sull’Hamsa (cigno) che non è "uccello" materiale, ma il nome naturale della funzione vitale che si manifesta come espirazione(Ham) ed inspirazione (Sah), respiro o Pranabija in tutte le creature che respirano (Prani). Lei è di nuovo la Divina nell'aspetto come Saggezza e Conoscenza, è la Madre dei Veda che è la summa d’ogni conoscenza riguardo al brahman e all'Universo. Lei è la Parola della quale tutto nacque e Lei esiste in quello che è il Suo grande utero (Mahayoni). Non per nulla gli uomini adoravano Vak o Sarasvati come il Potere Supremo.

giovedì 7 aprile 2011

Lilith

IL RITORNO DI LILITH


Reintegrazione, la Donna Oscura, e l’Islam Sufi

Una prospettiva Sufi

da http://www.tradizionesacra.it/scienza_islamica_e_iniziatica.htm


Di questi tempi, uno dei più potenti archetipi il cui nome è Lilith sta rinascendo nella femminilità religiosa, esso è l’archetipo della “misteriosa” intimità femminile. Per ere è stato messo da parte, denigrato e demonizzato dalle religioni patriarcali, ma adesso viene osservato con rinnovato interesse. Chiunque stia seguendo le tracce di Lilith, potrebbe essere interessato ad apprendere come sia già stata riabilitata secoli fa sotto la maschera del Sufismo. Lilith era conosciuta dai musulmani come Layla — dal famoso poema di Layla e Majnun.
Entrambi i nomi provengono dall’antica radice Semitica che significa 'notte'. Nell’antico Accadico il suo nome era Lilitu, dalla radice L-Y-L, terminante al femminile con la -t; esso assume la forma di Lilith in Ebraico. Il nome Arabo Laylá proviene dalla stessa radice, ma ha la desinenza per forma usato del genere femminile nei nomi delle ragazze arabe.

Lilith fu senza dubbio una reminiscenza della dea dell’arcaica religione Mediorientale, la quale fu demonizzata e divenne un ricordo sotto le religioni patriarcali. La sua cattiva reputazione dipende dal significato attribuitole: "parte buia, oscura, nera". Quando una nuova religione succede alla precedente, trasforma le divinità di quest’ultima in demoni e conserva dei pregiudizi nei suoi confronti. Psicologicamente, l’archetipo di Lilith, la Dea Oscura, (conosciuta nello Shaktismo come Kali Ma) divenne il canale di sfogo in cui la nuova religione patriarcale scaricava tutte le sue frustrazioni negative contro la donna.

Layla . . . ascolta i poeti Arabi. In ogni altro componimento poetico rinunziano alla lirica e poetano all’unisono: "Oh Layl, oh Layl, oh Laaaayyyyl...." O Notte!

Vivendo in questa civiltà moderna, noi assistiamo continuamente a notti illuminate elettricamente. Ma, ponetevi nel mezzo del deserto dell’Arabia di Layla. In una notte senza luna, c’è il NULLA. Nessuna duna, nessun cammello, niente. Ogni cosa viene assorbita nell’informe.

Ciò rappresenta il non-manifestato, l’aspetto di Allah che non entra nella creazione. Rispetto al mondo, l’attributo di Dio al-Khaliq, il Creatore, è maschile. Ma la realtà di Dio non si esaurisce con la creazione, e al di là della creazione c’è il non-manifestato. Si tratta del Divino Femminile a cui i poeti Sufi si rivolgono coi nomi di donna . . . tipo Layla.

La "parte oscura"? Nel Sufismo, ’"l’oscurità" di Layla non è considerata come qualcosa di nefasta o minacciosa. Al contrario, può essere luminosa – l’esperienza della "Luce Nera" (vedasi Henry Corbin, L’uomo di luce nel sufismo iraniano). O come lo "scialle nero" del Profeta . . .che talvolta i Sufi chiamano "kali kamaliya vala" (l’avvolto nel mantello nero) nei loro qawwali (assemblea dei sufi) . I Sufi sono anche collegati al kamal poşh. . . dei Sufi ancestrali (una fratellanza mistica che esistette fin dalla preistoria e nella quale operavano insegnanti e indovini). Il tappeto della preghiera del Profeta era anche nero, come lo fu la prima bandiera dell’Islam.

Layla, secondo l’interpretazione data dai Sufi, significa potere dell’amore. È l’oscurità femminile che ama in ugual misura, che ritorna amore, che ci trascina fuori da noi stessi e ci porta alla stazione estatica (hâl) dell’amore. Essa inebria, ci rende indifferenti al mondo, sorprendenti nei propositi, ci avvolge e trattiene ancora i suoi misteri, i suoi nascondigli… . . . le sue oscurità. La sola apparizione fugace della sua realtà inebria (come quando Majnun si innamorò profondamente alla sola vista delle sue dita del piede apparse sotto l’orlo del suo abito).

Dallo studio della storia delle religioni si evince che la nuova fede ha sempre etichettato le vecchie credenze demoniache. Per esempio, nello Wyoming c’è una conformazione rocciosa elevata ad incavi verticali che gli indiani americani considerano un luogo sacro; il nome nella lingua della tribù dei pellerossa Lakota è Mato Tipila (La Casa dell’Orso). Ma l’uomo bianco non potette trovare un nome migliore di "Torre dei Diavoli." Le divinità dei Veda (deva) sono i demoni dell’Avesta (div), mentre gli dei dell’Avesta (ahura) sono i demoni dei Veda (asura). Pan per focaccia!

Nella mia vita, ho avuto l’occasione di ascoltare l'opinione di certi musulmani indiani malinformati secondo cui Kali sarebbe il Diavolo in persona. (Non si preoccupavano mai di indagare seriamente e di scoprire il significato di Kali nelle fede Shakta e reagivano emotivamente alla sua nomina.) Allo stesso modo, abbiamo sentito che gli israeliti considerano Lilith un demone. Ma che cosa ci giunge esattamente della versione originale di Lilith antecedente alle Genti del Libro? Kâli significa in lingua Urdu nero. Forse un'analogia con Kali ci aiuterebbe meglio a integrare questo concetto. Se da un lato Uma/Parvati/Durga (è l’Energia Divina o Verbo nelle sue vari manifestazioni) rappresenta il lato amoroso del Femminile, Kali mostra il lato della fierezza. Gli Shakta vedono tutti questi aspetti integrati nell’intero concetto di Devi.

Nel Cristianesimo e nell’Islam qualcosa andò storto. Gesù e Muhammad furono molto indulgenti verso le donne tentando con tutti i loro mezzi di affrancarle dall’oppressione patriarcale. Ma i loro successori riabilitarono forzatamente la misoginia maschilista. Comunque, i mistici come me orientati verso i valori spirituali della femminilità, ritengono che sia ancora possibile recuperare le originali fonti della religione restituendole un posto di prima fila.

La novità più interessante è che il Sufismo ha recuperato e reintegrato il lato Oscuro della Donna nella persona di Layla, il cui nome proviene dalla stessa radice Semitica Lilith, cioè 'notte'. Il nome di Layla sta a Dio come la “Donna Amata” sta nella poesia Sufi, ed il Suo nome rappresenta l’abbraccio positivo della notte come Madre Oscura, l'amore che distrugge e guarisce dalla paura dell'oscurità. Kali significa 'nero' e Lilith/Layla si riferisce all’oscurità della notte, il potere del definitivo Divino Femminile che dissolve ogni forma.

Dobbiamo adorare il Divino Femminile in ogni donna e non dobbiamo mai cadere nella tentazione di demonizzarla. Dobbiamo riconoscere che una certa letteratura demoniaca sia stata utilizzata per opprimere la donne al posto di esaltare la loro Shakti (energia femminile). Osservandoci profondamente all’interno potremmo essere sicuri di non reprimere il Buio Femminile evitando che si trasformi in attacchi sulle donne. La reviviscenza del Femminile sta guadagnando terreno di questi tempi, gente! La mentalità Patriarcale si sta sbriciolando rapidamente. Le Religioni non saranno più capaci di sottomettere le donne. Non c'è sulla terra una forza più potente del risveglio femminile. Il represso Oscuro Femminile rappresentato da Lilith è gia stato ripristinato, riabilitato e reintegrato dalla psiche del Sufismo. Questo esempio può essere preso in considerazione dai fautori del misticismo femminile intenti a resuscitare il significato positivo di Lilith per le donne contemporanee.



"Per Colui che creò il maschio e la femmina"

(Corano, Surat al-Layl [la Notte], 92:3).

venerdì 4 febbraio 2011