giovedì 7 ottobre 2010

Summa teologiae, Quaestio II, art. 3


Scritto da Mara Cruini



Riguardo il terzo punto [1] si procede in questo modo. Sembra che Dio non esista. Perché:

1 Se uno di due contrari fosse infinito, l’altro risulterebbe completamente annientato. Ma questo si intende nel nome “Dio”, che è evidentemente un certo bene infinito. Se dunque Dio esistesse, non ci sarebbe alcun male. Ma il male si riscontra nel mondo. Dunque Dio non esiste.

2 Inoltre, ciò che può essere compiuto per mezzo di un numero inferiore di cause non c’è ragione per cui debba compiersi per mezzo di un numero superiore. Ma sembra che, poiché tutte le cose nel mondo possono essere compiute per mezzo di altre cause, bisogna supporre che Dio non esista: dato che le cose naturali sono ricondotte alla natura come loro principio, e in verità le cose intenzionali alle ragione umana e alla volontà. Dunque non c’è nessuna necessità di affermare che Dio esista.

MA AL CONTRARIO vi è ciò che è affermato in Esodo 3, (14), da parte della persona di Dio: Io sono colui che è.

RISPONDO dicendo che il fatto che Dio esiste può essere dimostrato attraverso cinque vie.

La prima e la più evidente via è quella che si desume dall’aspetto del moto. Certo è, infatti, e consta ai sensi che in questo mondo qualcosa si muove. Ma tutto ciò che si muove è mosso da altro. Infatti niente si muove se non è in potenza rispetto a ciò verso cui si muove, mentre quel qualcosa che muove lo fa in quanto è in atto. Infatti muovere nient’altro è che condurre qualcosa dalla potenza all’atto, ma non è possibile che qualcosa sia portato dalla potenza all’atto se non attraverso un qualche ente già in atto: come ciò che è caldo in atto, ad esempio il fuoco, fa sì che il legno, che è caldo in potenza, divenga caldo in atto, e in tal modo lo muove e lo altera. Ma non è possibile che una stessa cosa sia nello stesso tempo e dal medesimo punto di vista in atto e in potenza, ma può esserlo solo da punti di vista diversi: infatti ciò che è caldo in atto non può essere nello stesso tempo caldo in potenza, ma è nello stesso tempo freddo in potenza. Dunque è impossibile che, nello stesso tempo e dal medesimo punto di vista, un qualcosa sia movente e mosso, ossia che muova se stesso. Dunque è necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da altro. Se dunque l’ente da cui è mosso si muove a sua volta, è necessario che anche esso stesso sia mosso da un altro; e quello a sua volta da un altro e così via. Ma in tal modo non si può procedere all’infinito, perché così non ci sarebbe un qualche primo motore; e di conseguenza neanche altri motori, poiché i motori secondari non si muovono se non perché mossi dal primo motore, come il bastone non si muove se non perché mosso dalla mano. Dunque è necessario pervenire a un qualcosa che sia il primo motore, che non è mosso da nient’altro: e tutti comprendono che questo è Dio.

La seconda via è desunta dalla nozione di causa efficiente. Infatti troviamo che nelle cose sensibili vi è un ordine di cause efficienti e tuttavia non si riscontra, ne è possibile, che una cosa sia causa efficiente di se stessa; perché in tal modo sarebbe prima di se stessa, il che è impossibile. Ma non è possibile procedere all’infinito nell’ordine delle cause efficienti. Poiché in tutte le cause efficienti ordinate la prima è causa dell’intermedia e l’intermedia è causa dell’ultima, sia che le intermedie siano tante o una sola; ma una volta rimossa la causa è tolto anche l’effetto: dunque, se nell’ordine delle cause efficienti non ci fosse la prima, non ci sarebbe né l’ultima né l’intermedia. Ma se si procede all’infinito nell’ordine delle cause efficienti si elimina la prima causa efficiente: e così non vi sarà né l’effetto ultimo, né le cause efficienti intermedie: è chiaro che ciò è falso. Dunque è necessario porre una certa causa efficiente prima, che tutti chiamano Dio.

La terza via è desunta dal contingente e dal necessario, ed è così. Troviamo infatti fra le cose qualcosa che è possibile che sia o non sia: poiché certe coso sono generate e si corrompono, e di conseguenza possono essere o non essere. Ma è impossibile che tutte le cose che sono tali esistano da sempre, poiché ciò che è possibile che non sia prima o poi non è. Se dunque tutte le cose possono non essere, significa che un tempo non ci fu niente nel mondo. Ma se questo è vero anche ora non ci sarebbe niente, poiché ciò che non è non inizia ad essere se non per mezzo di qualcosa che è; e se dunque un tempo non ci fu nessun ente, è impossibile che qualcosa iniziasse ad esistere, e in questo modo anche ora niente esisterebbe: è chiaro che ciò è falso. Dunque non tutti gli enti sono contingenti, ma occorre che vi sia qualcosa di necessario nel mondo. Ma tutto ciò che è necessario o ha la causa della sua necessità altrove oppure no. Ma non è possibile procedere all’infinito negli enti necessari che hanno altrove la causa della propria necessità, come neanche nell’ordine delle cause efficienti, come è stato dimostrato. Dunque occorre porre un ente che sia di per sé necessario e che non abbia altrove la causa della propria necessità, ma che sia lui stesso causa della necessità per altri: questo è ciò che tutti chiamano Dio.

La quarta via è desunta dai gradi che si trovano nelle cose. Si trova infatti nelle cose qualcosa di più e meno buono, vero, nobile: e nello stesso modo riguardo anche altre perfezioni. Ma il più e il meno si attribuiscono a diverse cose secondo il diverso modo in cui si avvicinano a ciò che è sommo: come più caldo è ciò che si avvicina maggiormente al sommo calore. Vi è dunque qualcosa che è verissimo, ottimo, nobilissimo e di conseguenza il sommo ente, infatti le cose che sono sommamente vere, sono anche sommamente enti, come si dice nel secondo libro della Metafisica [2]. Ma ciò che è sommo in un qualche genere è la causa di tutte le cose che appartengono a quel genere: come il fuoco, che è sommamente caldo, è causa di tutto ciò che è caldo, come si dice nel medesimo libro. Dunque vi è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell’essere, della bontà e di qualsivoglia perfezione: e questo diciamo che è Dio.

La quinta via è desunta dal governo della cose. Vediamo infatti che alcune cose che mancano di conoscenza, cioè i corpi naturali, operano in vista di un fine: il che appare dal fatto che sempre o molto frequentemente operano allo stesso modo per raggiungere ciò che è ottimo; da ciò è chiaro che pervengono al fine non per caso ma per predisposizione. Ma le cose che non hanno conoscenza non tendono al loro fine se non dirette da qualcosa che abbia conoscenza e intelligenza, come la freccia da colui che la scaglia. Dunque vi è un ente intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine: e questo è ciò che chiamiamo Dio.





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martedì 28 settembre 2010

sabato 10 aprile 2010


DESCRIZIONE DELLE PITTURE DI ALCUNI VASI FITTILI


TAVOLA CCI

Fu il celebre Caylus che il primo produsse al pubblico nel questa gentilissima tazza, chiamandola etrusca , e ne descrisse le misure di sua grandezza , notandone il diametro d'un piede e sette linee, la profondità tre pollici e due linee, la sua elevazione quattro pollici e sette linee. Anche il D'Hancarville che pubblicò molti di questi vasi fittili dipinti, fu attento a darne esatte misure: notizia che s'abbandonò come inutile in tutte le posteriori pubblicazioni di vasi dipinti. È assai rimarchevole osservare che queste fittili tazze di variatissime grandezze hanno pitture interne ed esterne, eseguite con grado eguale di merito d'arte; noi che usiamo recipienti di forme analoghe a questa, non costumiamo tale amplitudine di pitture, e forse neppure gli antichi avrebbero sfoggiato in tanto lusso, qualora questi vasi fossero stati d'uso domestico, e non di semplice religiosa decorazione come io li suppongo.

Il Caylus volle dare un senso all'allegorica pittura che vi si vede, ed in conto dei due giovanetti che vi si trovano con in mano una canestra di frutti,e quindi anche una lepre, ne desume che siavi espresso il genio della stagione d'autunno, allegandone dottamente in conferma l'esempio d'un medaglione «dell'imperatore Commodo, nel quale con simboli di tal fatta vi si rappresentano le stagioni. Della donna che ha in mano cassetta e specchio non dice cosa veruna.

Il Genio alato con frutta e lepre, riguardato nell'insieme come simbolo, ha dato luogo in altre occasioni a più congetture, non però discordanti dalla mia principale che questi fìttili dipinti siano stati posti nei sepol-cri in ossequio di Bacco e del culto che a lui prestavasi, non men che alle anime de' trapassati nella stagione autunnale. Un lepre nelle mani d'un Genio alato ed alcune frutte alla Tavola CXVIII, nel volume II di quest'opera, dan soggetto a varie riflessioni e notizie opportune ad intendere il significato della pittura che è nella tazza in esame. Ma poiché nelle interpretazioni che non son guidate da dottrine accompagnate da sicuri e verifici dati si possono ammettere più congetture, cosi nel caso presente non è fuor di proposito il meditare sopra i due nominati simboli frutta e lepre. Il Creuzero, che molto ha Studiato questi, simboli, riconosce il lepre per un immagine individuale di Bacco in un senso afrodisiaco, forse causa della di lui superfetazione, come opinarono fin d'antichi tempi, e ne facevano un animale androgino; sopra di che mi estenderò in più opportuna occasione; mentre all'uopo nostro di aver trovato il simbolo del lepre in un vaso dipinto ch'era presso ad un cadavere, sarà sufficiente ch'io rammenti soltanto, come in varie urne cinerarie si trova scolpito il lepre coi frutti .

Oltre di che noi ravvisiamo parimente un bronzo pubblicato dal Causeo , dove un amorino sta espresso in atto di tenere in mano un lepre. Noi non troviamo in quel concetto un' azione in tutto naturale, mentre ad un fanciullo non si addice trattenere un animale salvatico in modo che appena si tiene da un adulto cacciatore, e molto meno avendo la sinistra mano occupata a reggere un canestro di frutte, ma troveremo assai naturale d'essere stato espresso con tal concetto o l'autunno, in cui si cacciano i lepri, come simil fanciulletto con lepre si vede in un medaglione di Probo, esprìmente le quattro stagioni , o la libidine del lepre in modo speciale attribuita a questi animali, per cui furon grata vittima a Venere . Or le espressioni di Venere, e per conseguenza d'Amore, non che della lascivia riferita al lepre non potevansi dall'artista sì del bronzo presso il rammentato Causeo, che della pittura della nostra tazza meglio esprimere, che rappresentandosi dall'uno un amorino che avendo preso un lepre lo tiene stretto, come dall'altro un amorino ch'è in atto di correre per raggiungerlo. Se poi riflettiamo alla frequenza colla quale si trovano dipinti ne' vasi, tra le bacchiche rappresentanze, questi amorini, o genietti alati, non troveremo più singolare il ravvisarne due in questa medesima tazza ; e se penseremo altresì alla connessione o piuttosto alla identità simbolica tra Venere e Bacco, e i due coniugi Libera e Libero, come deità del matrimonio e della morte, troveremo altresì coerente all'uso che gli antichi fecero di questo vasetto nel porlo allato d'un cadavere, mentre vi si rammenta con simboli bene appropriati quel vicendevole corso di vita e di morte che meditavasi ne' misteri del paganesimo. Per le ragioni medesime , credo aver voluto il pittore accennare i misteri e gli utensili che vi si usavano, cioè la cassetta mistica e lo specchio, ponendo tali oggetti per venusta di composizione pittorica in mano di una donna sedente , che vediamo nella parte esterna della tazza , posta al di sotto della di lei forma in questo rame stesso delineata.

sabato 20 marzo 2010

Kundalini-Yoga di René Guenon

La recensione di Renè Guenon al libro di Arthur Avalon "The Serpent Power", con l'interessante parallelo tra i "Chakra" della tradizione Indù e l'albero sefirotico della Cabala ebraica.
Da Etudes Traditionnelles, fascicolo di ottobre-novembre 1933,
traduzione di T. Masera pubblicata sulla Rivista di Studi Tradizionali - Torino

lunedì 8 febbraio 2010

mercoledì 3 febbraio 2010

AI PIEDI DI ŚRĪ ŚRĪ KĀLIKĀ
Mahā-Devī è chiamata Kālikā
(16 parte della luna, quella che non si manifesta)
perchè Ka è Brahma, La è Ātmā, I è Shakti, A è Ananta (beatitudine).
Così si dice che Mahādevī sia quel sottile Ātmā dell'universo.
Senza inizio e senza fine:
Il suo Corpo è blu, perché Lei pervade il Mondo come il cielo blu.
come coscienza essenziata della qualità bianca-pura-spirituale,
la immaginiamo nera, ma Lei è senza colore, superiore al colore del mondo,
regge la manifestazione ma non si manifesta.

I suoi capelli sono arruffati (Muktakeśī), perché sebbene sia immutabile,
lega infiniti Jiva (esseri viventi) con i vincoli di Māyā,
(simboleggiati dai Suoi capelli arruffati).
Lei rende liberi (Mukta) Brahmā, Vişŋu e Maheśvara, che sono Keśa
(lett. hanno la criniera color zafferano).
La immaginiamo con tre occhi, Sole, Luna e Fuoco,

Perché lei stessa è Virad-Prajapati, signora  di tutte le creature,
è testimone del passato del mondo, del presente e del futuro, Lei vede tutto.
La dipingiamo come se portasse i corpi morti di due ragazzi come ornamento per le orecchie,
perché Le è molto caro il fanciullesco ed imperturbato (Nirvikāra) Sādhaka.
quei Sādhaka che sono semplici come bambini hanno la vera conoscenza e Le sono cari.
Un tale Sādhaka raggiunge tutte le forme di conoscenza e di ricchezza e può incantare il mondo intero.
Si dice che abbia grandi denti, e la lingua penzoloni.
I suoi denti bianchi sono il morso di Sattva-Guŋa: mastica la nera ignoranza (Tamas) dei suoi sadhaka
il rosso della lingua penzoloni e due rivoli di sangue agli angoli della bocca indicano il Rajas Guŋa
(è lei che produce la qualità del rajas, perché lei è sattvagunamaka-essenziata di sattva guna).
Tiene nella Sua mano una tazza ricavata da un cranio umano,
Cinmayī (fatta di puro pensiero) Mahādevī,
beve il vino dell'illusione che sorge dal Tamas Guŋa del Suo Sādhaka,
coi mezzi del rajoguŋa di Sattva-pradhāna
È la sola Creatrice, Preservatrice e Distruttrice di milioni infiniti di Mondi,
ha sul Suo Corpo il marchio della Yoni che significa creazione;
i seni alti e pieni, che denotano conservazione;
il suo viso è terribile simbolo della distruzione di tutte le cose.
La si dipinge adorna d'una ghirlanda di teste mozzate,
perché Lei è lo Shabdabrahman (suono primordiale)
quelle teste sono le cinquanta lettere(tutti i suoni e gli oggetti indicati dai nomi).
Le sue mani destre: la superiore e la più bassa mostrano l'Abhaya ed il Vara Mudrā,
Perché Lei distrugge i pericoli, e concede i desideri agli Sakāma-Sādhakā.
La mano sinistra superiore è dipinta come se maneggiasse una spada,
Perché spezza i vincoli dell'illusione per il Nikāma(senza desideri)-Sādhaka
La sua mano sinistra più bassa, dicono, regge una testa umana,
perché Lei accorda Tattvajñāna (conoscenza dei principi essenziali).
È stata chiamata Digambarī (vestita di spazio), perché essendo il brahman (Brahmarūpiŋī)
è libera dai vincoli di Māyā ed indifferente (Nirvikāra).
La dipingono come se portasse una cintura di mani umane:
le mani sono il principale strumento del lavoro(Karma),
tutti i Jīva con i loro Karma sono fusi nell'Avidyā Śakti di Mahāmāyā,
(Shakti indifferenziata,compatta in se stessa, che tiene chiuse in sé tutte le possibilità).

Dicono che stia eretta sul petto del cadavere di Śiva,
perché è lo Stato Supremo (Paramapada) e Svarūpāvasthā(che non guarda verso alcun luogo)
Lei è Mahādevī (una con Śiva) ed è Nirguna (senza Qualità) ed immutabile (Nirvikāra),
Così è vista nel Viparīta-maithuna con Mahākāla (grande Tempo).
Perché all'inizio di un Kalpa, Lei non è mai felice (Nityānandamayī),
ma quando si unisce a Śiva trova piacere nel lavoro della creazione,
che realizza portando l'immutabile Paraśiva, sotto il Suo dominio (Vaśībhūta).
Si dice che viva nell'ara crematoria,perché quando, alla fine di un Kalpa
tutte le cose nell'universo da Brahma ad un filo di erba sono dissolte nel Mahākāla,
Lei è cosa sola con quel Mahākāla, paragonato all'ara crematoria
e perchè alla morte dei Jīva esiste come il Jīvātmā individuale è nella terra che arde.
Il suo Yantra per l'adorazione è composto da un cerchio che simboleggia Māyā,
e da un loto con otto petali che denota le otto parti di Prakŗti,
tre Pentagoni che rappresentano le sue quindici parti
(le quindici Nitya di Kalika) e da Bindu che esprime Śiva-Śakti
Perché Lei, come Paramātmā,esiste nei corpi grossolani e sottili
costituiti dai tre Guŋa e dai ventiquattro Tattva,
Il suo Bīja 'Krīm', Regina di tutti i Mantra, è puro Sattva Guŋa,
è coscienza (Caitanyamayī), e accorda Godimento e Liberazione,
Lei è adorata come Dakşiŋā perché solo Lei accorda il pieno frutto
di tutte le forme di Upāsanā (avvicinamento al divino) e Yajńa (sacrificio).
Lei, questa Mahādevī che è Saccidānandarūpiŋī (essenza di essere-coscienza-beatitudine),
è il perdono stesso che perdona tutte le offese che ho commesso nel chiarire questo il Suo Inno.
Śaмbhu con le Sue cinque bocche non è capace di riferire le Sue qualità.
Perdoni tutta la mia puerilità. Sia fausta e protegga la mia vita,
protegga la mia reputazione mia moglie, i figli e la salute.
Ed alla morte mi accordi la Liberazione. O Madre del Mondo, a te m'inchino.
ŚRÎ VIMALĀNANDA-ŚVĀMĪ